Agromafie e caporalato

De Ficchy Giovanni

Le mafie, naazionali e straniere, gestiscono la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, l’intermediazione illecita (caporalato) e una serie di “servizi” non secondari come il racket interno alla propria comunità di appartenenza, usura, rinnovo dei documenti normativamente previsti, superamento delle vertenze con il datore di lavoro, spaccio di sostanze stupefacenti, in alcuni casi connesso allo sfruttamento nei campi agricoli come nel caso della comunità indiana pontina.

Le mafie, le agromafie e sistemi criminali di vario genere fanno affari d’oro radicandosi nella filiera agricola e commerciale, anche con il caporalato.

 Secondo l’ultimo rapporto Agromafie e Caporalato in Italia ci sono circa 450 mila persone che vivono condizioni di sfruttamento lavorativo solo in agricoltura e di questi ben 130 mila condizioni para-schiavistiche. 

Per molti anni lo sfruttamento bracciantile è stato considerato un elemento residuale delle campagne italiane, soprattutto nel Sud Italia. 

Negli ultimi due anni, il contesto generale del settore ha subito stravolgimenti epocali, che ci restituiscono una delle fasi più incerte dal dopoguerra a oggi, evocando dinamiche e scenari fino a non molto tempo fa del tutto imprevedibili.

È indubbio che gli effetti della pandemia e, successivamente, della guerra in Ucraina abbiano prodotto, soprattutto tra i lavoratori meno tutelati, ulteriori difficoltà e disagi.

Un trend che non può non preoccupare, se si considera il fatto che nelle nostre campagne l’esercito delle persone occupate irregolarmente è in continua crescita, con il relativo aumento dell’esposizione al caporalato e allo sfruttamento. 

 Oggi chi chiede asilo e i beneficiari, esclusi dal sistema di accoglienza, sono esposti infatti a emarginazione sociale con un alto rischio di finire nelle maglie della criminalità. 

Donne che ogni giorno subiscono ricatti e violenze sessuali.

Un sistema pervasivo e predatorio che spinge alcuni lavoratori a suicidarsi, abbiamo in questi anni conosciuto molte tristi vicende di molti braccianti, uomini e donne, migranti e italiani, ribelli per scelta alla schiavitù dei padroni e dei padrini delle agromafie.

Sono centinaia di migliaia di donne e uomini originari dell’Africa subsahariana, India, Bangladesh, Pakistan, Libia e di molti altri paesi, vengono reclutati al solo scopo di lavorare come schiavi nelle nostre campagne.

La burocrazia associata ad una politica incapace di governare questi processi finisce per sfavorire le imprese che coltivano i terreni confiscati alle mafie.

D’altro canto, il mancato automatismo tra confisca di suoli e blocco dei fondi agevola i clan che, in alcuni casi, continuano a percepire denaro anche dopo la perdita del terreno.

A questo banchetto siedono tutte le mafie, a volte anche straniere, con il loro stuolo di avvocati, commercialisti, politici e consulenti compiacenti.

E’ una rete criminale, che si incrocia perfettamente con la filiera del cibo, dalla produzione al trasporto, dalla distribuzione alla vendita, con tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni che via via abbandonano l’abito “militare” per vestire sempre di più il “doppiopetto” e il “colletto bianco”, riuscendo così a scoprire e meglio gestire i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, dell’economia e della finanza.

Sono 27 i Clan criminali interessati per un fatturato complessivo, intorno ai 25 miliardi di euro con un balzo del 12,4 per cento nel solo 2019 e una crescita che sembra non risentire della stagnazione dell’economia italiana e internazionale, immune alle tensioni sul commercio mondiale e alle barriere circolazione delle merci e dei capitali.

A tavola è seduto il gotha delle mafie: dai Gambino ai Casalesi, dai Mallardo alla mafia siciliana , dai Morabito ai Rinzivillo.

Che investe anche nella ristorazione: sulla base delle recenti inchieste e dei sequestri di beni, si e’ stimato in almeno 10.000 il numero dei locali pubblici nelle mani della criminalità, fra ristoranti, pizzerie, bar, intestati soprattutto a prestanome e usati come copertura per riciclare i soldi sporchi.

L’entità degli interessi mafiosi nel settore agroalimentare in tutto il Paese ma soprattutto al Sud.

L’altro fronte critico, secondo Legambiente, è costituito dal cosiddetto ‘italian sounding’, una delle forme più diffuse di imitazione del Made in Italy nel settore agroalimentare ed e’ rappresentato da quei prodotti che, pur non essendo tecnicamente contraffatti, richiamano in qualche modo, nei colori o nei nomi, l’italianita’ degli ingredienti, della lavorazione o del prodotto stesso senza pero’ che le materie prime e la relativa lavorazione siano effettivamente italiane.

L’italian sounding ha un valore pari a circa 60 miliardi di euro l’anno, su scala mondiale (164 milioni di euro al giorno). 

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