De Ficchy Giovanni

Per l’Italia, spesso definita come “penisola che non vede il mare”, la sicurezza nazionale passa necessariamente per l’elemento marittimo.

Essere al centro del Mediterraneo non è però una condizione pienamente assorbita da Roma, che oggi deriva tattica e strategia da un temporaneo smarrimento di questa peculiarità geografica.

Non è la prima volta: tra tutti i popoli che in passato hanno abitato la Penisola, solamente i latini, e più tardi le repubbliche marinare, svilupparono un’attinenza al mare.

Mentre alla classe dirigente dell’Italia di oggi, per citare l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, manca «la consapevolezza del nostro destino marittimo, dell’importanza del mare per la nostra prosperità e sicurezza».

Per questo, secondo l’ex Capo di Stato Maggiore della marina militare, «dovremmo conferire la giusta priorità alla questione marittima, interrompendo il declino della flotta, anche in termini di organico». L’arma blu, risulta infatti essere, tra le tre branche delle forze armate italiane, la più modesta in termini di unità, addirittura più contenuta dell’aeronautica.

E lo stress dovuto alla contrazione degli organici, che impone una ripartizione degli impegni difficilmente sostenibile per il personale a bordo, diventa evidente anche dal paragone con altre marine più o meno equivalenti a quella italiana per rango, tonnellaggio e impegni effettivi: in tutto, 27mila operativi contro i 38mila del Regno Unito e i 41mila della Francia.

Una marina militare che dovrebbe essere ampliata anche solo per manutenere le rotte commerciali, che nel Mediterraneo hanno la Penisola come snodo e tappa obbligatoria.

La dimensione economica del mare – strettamente connessa a quella militare secondo l’ufficiale borbonico Giulio Rocco, per cui al naviglio di commercio va affiancata una flotta da guerra di adeguata capacità – è anch’essa amministrata in maniera a-strategica.

Oggi via mare transita il 57% delle importazioni dell’Italia e il 44% dell’export: nei porti dello Stivale sono movimentati circa 480 milioni di tonnellate di beni.

Più in generale, il 90% delle merci mondiali viaggia via mare e il Mediterraneo, pur occupando solo l’1% della superficie marittima mondiale, vede passare per le sue acque il 20% degli scambi.

Un settore, quello della cosiddetta blue economy, che vale per l’Italia oltre 34 miliardi di euro, pari al 2% del Pil complessivo.

Quest’indotto economico è però facilmente soffocato dall’attuale apparato burocratico, che in Italia governa le questioni marittime.

Invero, dal 1993, quando il parlamento decise di eliminare il ministero della Marina mercantile, è iniziato un lento smembramento delle competenze del settore, che oggi vede almeno otto dicasteri concorrere nella definizione delle diverse istanze che riguardano l’economia marittima, compromettendo la possibilità di elaborare una politica nazionale univoca e coerente.

Ma dato che l’Italia è un Paese trasformatore, cioè necessita di importare materie prime per esportare prodotti finiti, è fondamentale efficientare il settore marittimo e salvaguardare il commercio internazionale, che è un sistema estremamente fragile – come hanno dimostrato gli attacchi degli Houthi.

La Penisola prospera e rimane in sicurezza finché il Mediterraneo è libero e aperto, una condizione che oggi è quanto mai messa a rischio.

File:160616-N-KK394-183 Secretary of the Navy Ray Mabus speaks with Chief  of the Italian Navy Giuseppe de Giorgi.jpg - Wikimedia Commons
A destra l’ammiraglio ed ex Capo di Stato Maggiore della Marina Militare italiana Giuseppe de Giorgi

La nuova realtà del Mediterraneo che l’Italia fatica a riconoscere

Il memorandum del 2 marzo 1949 con cui il Dipartimento di Stato convinse il presidente Truman ad ammettere l’Italia nel Patto atlantico, recitava: «nel caso di guerra terrestre in Europa occidentale, l’Italia è strategicamente importante.

Quanto alla guerra marittima, non c’è dubbio circa la sua potenzialità strategica per il controllo del Mediterraneo».

Un precetto cogente ancora oggi per gli Stati Uniti, le cui principali basi in Italia sono quasi tutte collocate in prossimità del mare, ma che non tiene conto della mutata natura della competizione nel Mediterraneo iniziata con la fine della Guerra Fredda.

La fine del bipolarismo e il successivo crollo di quei regimi che garantivano una relativa stabilità nell’area, a partire da quello di Gheddafi, hanno infatti mutato l’equazione strategica della regione.

Oggi nel mare nostrum vige un crescente multipolarismo, alimentato da un progressivo disimpegno di Washington, ora concentrata a contenere la Cina nell’Indo Pacifico – sebbene la crisi in Medio Oriente la mantenga momentaneamente ancorata a largo del Levante.

Questi vuoti di potere vengono sfruttati sempre di più da grandi potenze come Russia e Cina, che si fanno sempre più assertive in quello specchio d’acqua tanto distante dai loro interessi di sicurezza nazionale, ma così vicino ai nostri.

Mentre medie e piccole potenze come la Turchia e l’Algeria, direttamente interessate a quello che accade a largo delle acque che bagnano le loro coste, non guardano al Mediterraneo come a un bene da condividere con tutti, ma anzi adottano una prospettiva esclusivista, che l’Italia fatica anche solo a concepire.

La dottrina turca della Patria blu (Mavi Vatan), corroborata dall’accordo di demarcazione raggiunto con la Libia, e la Zona economica esclusiva (Zee) algerina, che lambisce per 70 miglia le acque territoriali italiane a sud-ovest della Sardegna, sono un chiaro esempio di questo spregiudicato attivismo.

Nel Mediterraneo, l’Italia si gioca la sua sopravvivenza geopolitica ed energetica – ora che i Paesi nordafricani sono i suoi principali fornitori di gas e petrolio – e soltanto lì può approfondire la sua influenza e guadagnare potere a spese dei suoi rivali.

Tuttavia, l’ignoranza di tale condizione è massima nell’opinione pubblica, che concentra attenzioni e dibattiti sulla questione ucraina, senza considerare che, se volessero davvero contrastare la paventata minaccia russa, dovrebbero in realtà dirigere lo sguardo a poche centinaia di chilometri a sud.

In Cirenaica i mercenari di Mosca hanno messo le tende e progettano di costruire strutture per accogliere navi e sottomarini, che da lì sarebbero in grado di minacciare in ogni momento, qualora lo volessero, le coste italiane.

Ma senza spingersi tanto oltre, i russi potrebbero già ora influenzare la direzione e l’intensità dei flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana e minacciare infrastrutture strategiche come il Green stream, il gasdotto che dal Fezzan rifornisce di energia la Penisola – l’affrancamento dal gas russo è solo apparente.

Realtà che non viene recepita e inconsapevolezza che viene alimentata da una mancata “cultura delle onde”, che dovrebbe riorientare lo sguardo degli italiani dalle alpi al mare.

In Italia non esiste infatti un museo, un archivio, una fondazione o un istituto culturale che promuova la conoscenza della storia italiana sui mari.

D’altronde, il Bel Paese è uno dei più parchi nelle spese destinate alla promozione della cultura.

Secondo gli ultimi dati disponibili, sono pari al 6,6% del totale, mentre la media dell’Unione europea è dell’8,5%, con i paesi più virtuosi che raggiungono l’11%.

Progetti come il Piano Mattei sono direttamente collegati alla riscoperta dell’importanza del Mediterraneo, dei pericoli e delle opportunità che lo abitano, ma rischiano di arrivare troppo tardi e privi delle risorse adeguate.

Altri segnali positivi si trovano nell’azione del Parlamento, che il 14 giugno 2021 ha varato una legge che ci autorizza ad affermare una Zee.

Le aspirazioni mediterranee dell’Italia rimangono tuttavia vincolate ancora da ideali mitteleuropei, mezzi inadeguati e “impercezione geopolitica”

Di Admin

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