Mario Draghi, dopo il suo discorso al Senato, ha lasciato la scena politica italiana con un misto di rammarico e disillusione, come testimoniato dalle sue parole pungenti prima di abbandonare l’aula: “Vedo che guardate l’orologio, quindi vi ringrazio”.

Una dichiarazione che non ha solo rivelato la sua frustrazione per l’indifferenza dei suoi interlocutori, ma anche il senso di un fallimento politico che da tempo sembrava ineluttabile.

Il suo intervento, purtroppo, è stato accolto con freddezza da molti dei partiti che avevano già affossato il suo governo e le sue ambizioni di salire al Colle. Ma se il suo addio è stato segnato da un gesto di stizza, le parole che aveva pronunciato contenevano proposte rilevanti, in particolare sul fronte della difesa europea.

Draghi ha lanciato una proposta audace: finanziare il riarmo europeo tramite Eurobond. Un’idea che avrebbe potuto segnare una svolta nelle politiche di difesa dell’Unione Europea, dando solidità e continuità alle iniziative di potenziamento delle capacità difensive del continente.

Ma dietro il rifiuto a questa proposta da parte di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ci sono due motivi che vanno oltre la mera resistenza a un’idea politica.

Il primo motivo risiede nella difficoltà di alcuni Stati membri ad accettare una vera e propria centralizzazione delle risorse finanziarie per la difesa.

L’idea di utilizzare gli Eurobond per finanziare un piano di rearmo comporta un passo significativo verso una maggiore integrazione fiscale e militare all’interno dell’Unione, qualcosa che molti Paesi, soprattutto quelli più orientati alla difesa dei propri bilanci nazionali, vedono con sospetto.

Il secondo motivo, più pragmatica e politica, è che Draghi, nonostante il suo prestigio internazionale, non ha potuto esercitare la stessa influenza in Europa che aveva nel suo ruolo di presidente del Consiglio italiano.

La sua proposta di coordinare il piano di riarmo europeo era un primo passo verso una difesa europea comune, ma la mancanza di sostegno da parte di alcuni governi europei ha reso difficile la sua concretizzazione.

Il terzo fattore da considerare è la diversa percezione della minaccia.

Sebbene la guerra in Ucraina abbia risvegliato un senso di urgenza in molti Paesi, l’intensità con cui questa minaccia viene percepita varia significativamente.

Gli Stati più vicini geograficamente al conflitto, come i Paesi Baltici e la Polonia, sono comprensibilmente più propensi a investire massicciamente nella difesa, mentre altri, situati più a ovest e a sud, potrebbero considerare le priorità in modo diverso, magari privilegiando investimenti in altri settori come l’energia rinnovabile o la sanità.

Questa disparità di vedute rende complicato raggiungere un consenso su un piano di riarmo europeo unitario.

Infine, non bisogna sottovalutare il ruolo degli interessi nazionali.

Ogni Paese ha una propria industria della difesa, con i propri fornitori e i propri contratti.

Un piano di riarmo europeo coordinato, pur teoricamente vantaggioso in termini di efficienza e standardizzazione, potrebbe inevitabilmente favorire alcuni Paesi e penalizzarne altri, scatenando resistenze e obiezioni da parte di chi teme di perdere quote di mercato o posti di lavoro.

La strada verso una difesa europea comune, quindi, è costellata di ostacoli economici, politici e strategici, che richiedono un delicato equilibrio tra ambizione europeista e realismo nazionale.

La sua burocrazia pachidermica è diventata un Moloch che divora risorse e produce solo carta straccia. Ci impongono assurdi limiti alla circolazione delle auto, ma poi finanziano progetti faraonici che non servono a nessuno.

Parlano di ambiente, ma continuano a foraggiare multinazionali che inquinano il mondo. Ci riempiono la testa di belle parole, ma poi ci lasciano soli ad affrontare i problemi reali.

E i nostri governanti, , chinano la testa e obbediscono senza fiatare.

Hanno svenduto la nostra sovranità in cambio di qualche contentino e di qualche pacca sulla spalla.

Ma la misura è colma. Prima o poi la gente si stancherà di essere presa in giro e si ribellerà a questo sistema marcio.

Bisogna rifondare l’Europa, partendo dai suoi valori originari, e restituire la voce ai cittadini.

Basta con questa Europa dei burocrati e dei tecnocrati, vogliamo un’Europa dei popoli!

Un’Europa che protegga le nostre tradizioni, la nostra identità, la nostra cultura.

Un’Europa che sia forte e autorevole nel mondo, ma che sappia anche ascoltare le esigenze dei suoi cittadini.

Altrimenti, questa vecchietta ceca e storpia è destinata a morire.

E noi, con lei.

Le parole di Draghi al Senato, dunque, rappresentano non solo una riflessione amara sulla fine del suo percorso politico in Italia, ma anche un richiamo a un’Europa che, nonostante la crescente necessità di rafforzare la propria difesa, sembra divisa e incapace di compiere scelte coraggiose per affrontare le sfide globali.

Se da un lato le sue proposte per l’integrazione militare europea potrebbero sembrare visionarie, dall’altro evidenziano le difficoltà strutturali dell’Unione nel perseguire un’agenda di difesa comune, capace di affrontare le minacce che vengono da oltre i confini europei.

.La sua analisi impietosa della situazione europea si configura come un monito, un’esortazione a superare gli interessi nazionali e le miopie politiche che paralizzano l’azione comune.

Draghi sembra suggerire che l’Europa, per rimanere un attore rilevante nello scenario internazionale, debba necessariamente abbracciare una visione strategica più ambiziosa e coesa, abbandonando le logiche del compromesso al ribasso che ne hanno spesso compromesso l’efficacia.

La sua eredità politica, al di là della brevità dell’esperienza governativa italiana, risiede forse proprio in questa lucida e disincantata valutazione del ruolo dell’Europa nel mondo, un ruolo che, a suo avviso, richiede un coraggio e una determinazione che finora sono mancati. Resta da vedere se le sue parole, pronunciate in un momento di transizione politica per l’Italia e per l’Europa, troveranno un terreno fertile per germogliare e ispirare un cambiamento di rotta.

Draghi, con il suo addio al governo italiano, non solo ha chiuso una fase della politica italiana, ma ha anche gettato un’ombra sul futuro delle politiche di difesa europea, che necessitano di maggiore coesione e visione strategica. La domanda che ora sorge è: riuscirà l’Europa a superare le divisioni interne per costruire una difesa comune che sia all’altezza delle sue ambizioni geopolitiche? La risposta, al momento, rimane incerta.

.L’assenza di una figura come Draghi, percepita come un leader europeista pragmatico e determinato, rischia di indebolire il fronte di chi spinge per una maggiore integrazione nel settore della difesa. La sua credibilità internazionale e la sua capacità di mediazione tra le diverse anime europee erano elementi cruciali per superare le resistenze nazionali e le visioni divergenti.

Ora, con un panorama politico italiano incerto e potenzialmente orientato verso posizioni meno allineate con le politiche europee, il rischio è che l’Italia rallenti il suo impegno verso la Pesco (Cooperazione Strutturata Permanente in materia di difesa) e altre iniziative di difesa comune. Questo potrebbe innescare un effetto domino, minando la fiducia e la cooperazione tra gli altri Stati membri.

Le sfide sono enormi: dalla definizione di una strategia comune di deterrenza, all’armonizzazione degli investimenti in capacità militari, passando per la creazione di una vera e propria industria europea della difesa. Senza una leadership forte e coesa, il sogno di un’Europa capace di difendere i propri interessi e valori rischia di rimanere tale, relegata a un’aspirazione irrealizzata nel complicato scacchiere geopolitico mondiale. Il futuro della difesa europea, dunque, è appeso a un filo, in attesa di vedere chi raccoglierà l’eredità di Draghi e se sarà in grado di dare nuova linfa a un progetto ambizioso ma fragile.

Di Admin

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