
In un’epoca in cui le ideologie sembrano essere sempre più sfumate, Donald Trump emerge come un personaggio che misura il mondo attraverso una lente unica: quella dell’estetica.
Non si tratta di bilance o pesi, né di un’argomentazione morale fondamentalmente discutibile.
No, la sua è una geografia della bellezza, e non una bellezza qualsiasi, ma quella che brilla come un diamante allo X Factor della vita pubblica.
Lo specchio, per Trump, non è solo un oggetto riflettente, ma un totem dal quale attingere potere e autorità.

Immaginate di trovarvi nel suo universo.
Un universo dove ciò che è alto, impeccabile e costoso è sinonimo di virtù, mentre tutto ciò che è basso, trasandato, scuro o rugoso appartiene al suo personale “campo nemico”.
Non c’è spazio per nuances morali; ci sono solo ed esclusivamente le sue definizioni di magnificenza.
Un abito mal stirato?
Eresia!
Una cravatta corta?
Debolezza esibita!
Al contrario, un viso abbronzato artatamente, i capelli perfettamente ordinati e una postura eretta trasmettono un’immagine di dominio e successo.
Nel suo dizionario, l’apparenza non è mai un velo dietro il quale si nasconde la verità; è la verità pura e semplice.
Quando guarda i suoi “alleati”, li descrive con un fervore quasi da sfilata di moda.

“Bravi ragazzi”, “belle persone”, “stilosi”: questi sono i suoi epitomi di approvazione.
La sua notoria preferenza per aggettivi come “bello”, “forte” e “fantastico” ci fa pensare a un critico di moda piuttosto che a un leader politico.
Non c’è spazio nel suo lessico per empatia o coerenza; solo per portamento e presenza scenica.
È un mondo dove ogni discorso diventa una passerella, e lui, naturalmente, è il protagonista indiscusso.
Nel regno degli avversari, invece, la situazione si rovescia.
Qui troviamo i “piccoli”, i “malvestiti”, gli “scapigliati”.
Trump sembra armato con un metro a nastro invisibile che utilizza per misurare le anime.
Con un disprezzo degno di un fashion designer, lo vediamo commentare l’uniforme verde oliva di Volodymyr Zelensky, così lontana dalla sua idea di grandezza.
Una figura che sembra uscita da una mazza da golf, per Trump, non merita nemmeno di essere considerata.
E quando si tratta di donne, i suoi standard diventano ancora più spietati.
Le donne che lo adorano sono “belle”, “intelligenti”, “di prim’ordine”, mentre quelle che osano opporsi alla sua grandiosa immagine vengono trasformate in caricature grottesche: “brutte”, “pazze”, “fuori dal mondo”.
Non c’è un criterio politico in questo gioco; il merito è un concetto sfuggente, e ciò che conta è come si appare davanti alle telecamere.
È come se stesse giudicando una competizione di bellezza piuttosto che un dibattito serio sulle questioni politiche.
La sua ossessione per l’altezza, sia la sua che quella degli altri, si inserisce perfettamente nella mitologia del suo specchio.
Sempre eretto, costantemente al centro dell’inquadratura, cerca di dominare anche con pochi centimetri in più.
La sua stretta di mano, un rituale coreografato, diventa una micro-battaglia: tira, inclina, prova a mostrare chi ha più fermezza e volume.
È un teatro fisico, in cui ogni gesto è studiato per comunicare controllo e potere.
Ogni dettaglio del suo look è attentamente progettato: l’abito blu scuro, la cravatta rossa infinita, la carnagione arancione, l’acconciatura impossibile.
Tutto serve a trasmettere un messaggio di dominio e autorità.
È un personaggio scolpito come se fosse un brand registrato, convinto che il potere duri finché l’immagine non crolla.
E qui risiede la tragedia, perché quest’estetica del potere ha finito per sostituire ogni nozione di moralità nel suo mondo.
Per Trump, non esiste verità o menzogna.
Esiste soltanto una buona o una cattiva illuminazione.
Ciò che conta non è la giustizia, ma l’angolazione.
La politica diventa un televisore e il Paese un pubblico che deve applaudire.
In fondo, la sua vera ossessione non è tanto l’aspetto eterogeneo degli altri, quanto il proprio.
Temendo di invecchiare, di rimpicciolirsi, di perdere la sua monumentalità, ha bisogno di nemici “brutti” e amici “belli”.
L’unico modo per continuare a vedersi alto, brillante e immortale è avere un paesaggio che rifletta queste ansie.
Donald Trump non governa.
Si atteggia.
E il suo governo, come il suo specchio, non fa che rifletterlo.
Se c’è una lezione da apprendere da questa farsa, è che nel mondo di Trump l’apparenza è tutto, e la sostanza è relativamente insignificante.
Fino a quando ci sarà uno specchio ad aspettarlo, lui continuerà, imperterrito, a misurare il mondo secondo i suoi criteri personali, costringendo tutti a danzare su questa passerella surreale che ha creato.
E così, mentre il resto del mondo continua a girare, Trump rimane là, fissato nel suo riflesso, con un sorriso grande quanto la sua egoista ideologia della bellezza.
Questo è il teatro della politica contemporanea, dove chi non si allinea alle sue regole del gioco è condannato a una vita di anonimato e miseria.
Ma, ahimè, cosa sarebbe la vita senza una buona dose di ironia?
Magari, un giorno, ci sveglieremo per scoprire che il re è nudo, del tutto privo dell’apparenza che ha cercato di costruire.
Fino ad allora, continueremo a osservare e a ridere di questo spettacolo senza precedenti.