Poche storie catturano la tragedia della disillusione con la stessa potenza di quella del Nicaragua sotto Daniel Ortega.

Quella che un tempo era una rivoluzione ricca di speranza, poesia e giustizia sociale – il sandinismo – si è trasformata, nel corso degli anni, in un regime autoritario sostenuto dalla paura, dalla repressione e dal controllo assoluto del potere.

Ortega, che negli anni Ottanta simboleggiava la dignità di un popolo che aveva rovesciato la dittatura di Somoza, ora incarna il paradosso più doloroso della sinistra latinoamericana: il rivoluzionario che diventa dittatore, il liberatore che diventa carceriere.

Con il trionfo del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) nel 1979, il Nicaragua divenne un faro per un’intera generazione latinoamericana.

Fu l’ultima grande rivoluzione romantica del continente: contadini, studenti, sacerdoti e poeti unirono le forze per liberare il loro paese da una dinastia brutale e filoamericana.

Ortega e i suoi compagni incarnavano la possibilità di un socialismo dal volto umano, profondamente cristiano, antimperialista e populista.

Il sandinismo non era solo un progetto politico; era una spiritualità collettiva, una fede nella capacità del popolo di costruire il proprio destino.

Tuttavia, col tempo, quella mistica si è corrotta, prima a causa delle devastazioni della guerra civile e dell’intervento statunitense, poi a causa delle lotte di potere interne.

La sconfitta elettorale del 1990 ha segnato una svolta: il sandinismo si è diviso tra chi voleva mantenere viva l’utopia popolare e chi optava per una strategia pragmatica per riconquistare il potere.

Ortega scelse quest’ultima. Iniziò così un lento ma costante processo di adattamento al sistema contro cui un tempo aveva combattuto, stringendo alleanze con settori imprenditoriali, vecchi nemici politici e persino con la gerarchia cattolica conservatrice.

Quando tornò al potere nel 2007, lo fece sotto una veste diversa: non parlava più di rivoluzione socialista, ma di “cristianesimo, socialismo e solidarietà”.

Il suo discorso era mutato; anche il suo progetto era cambiato. Invece di costruire una nuova fase del sandinismo, Ortega costruì un regime personalistico e patrimoniale, in cui lo Stato era assorbito da una ristretta cerchia familiare.

Sua moglie, Rosario Murillo, assunse un ruolo centrale, non solo come vicepresidente, ma anche come voce simbolica e mistica del potere, un mix di spiritualità New Age e autoritarismo domestico.

Nel corso del tempo, il sandinismo storico fu soppiantato dall’orteguismo, un apparato politico sostenuto da tre pilastri: controllo istituzionale, repressione sistematica e manipolazione della narrazione rivoluzionaria.

L’FSLN cessò di essere un movimento di massa e si trasformò in una macchina elettorale al servizio degli interessi della famiglia al potere.

Gli antichi simboli della rivoluzione – la bandiera rossonera, i canti, gli slogan – divennero strumenti di propaganda al servizio del potere, svuotati del loro originario significato emancipatorio.

La censura divenne la norma. I media indipendenti furono chiusi o espropriati; le organizzazioni per i diritti umani e i movimenti civici furono perseguitati; centinaia di leader dell’opposizione, studenti, contadini e sacerdoti furono imprigionati o esiliati.

Persino figure storiche del sandinismo, come Dora María Téllez e Hugo Torres – eroi della rivoluzione – furono trattati come nemici dello Stato. La rivoluzione, che un tempo prometteva libertà, finì per divorare i propri figli.

Il momento più tragico di questa deriva autoritaria si verificò nel 2018, quando un’ondata di proteste spontanee, guidate da studenti universitari e agricoltori, scosse il regime.

Quella che era iniziata come una manifestazione contro la riforma delle pensioni si trasformò rapidamente in una ribellione civica contro l’autoritarismo.

La risposta del governo fu brutale: più di 300 persone morirono, migliaia rimasero ferite e innumerevoli altre furono perseguitate o fatte sparire.

Il Nicaragua, simbolo di resistenza e speranza, divenne un paese di paura.

Quella repressione segnò un punto di non ritorno.

La disillusione divenne cruda e insopportabile: non solo politica, ma anche morale ed emotiva.

Gli ex combattenti sandinisti, coloro che avevano rischiato la vita contro Somoza, osservarono con dolore il nuovo regime riprodurre la stessa logica di controllo, nepotismo e violenza che avevano giurato di sradicare.

Le prigioni di Ortega si riempirono degli stessi idealisti che un tempo avevano riempito le piazze per difendere la rivoluzione.

Spogliato della sua anima popolare, il sandinismo è diventato una religione di potere, un mito strumentalizzato per giustificare l’autoritarismo.

Ortega si è proclamato difensore della sovranità nazionale contro l’imperialismo, ma il suo governo è sostenuto dalla paura e dall’obbedienza.

La retorica rivoluzionaria, ripetuta fino alla nausea, ha perso ogni peso etico. Dove un tempo c’erano poesia e speranza, oggi regnano silenzio e censura.

In questo contesto, il popolo nicaraguense soffre una doppia ferita: quella del presente, segnata dalla repressione, e quella del passato, tradito da coloro che promettevano redenzione.

Il disincanto in Nicaragua non è un’idea astratta: è un’esperienza quotidiana di dolore e disillusione, la sensazione che la storia si ripeta come farsa e tragedia al tempo stesso.

Eppure, anche in mezzo alla paura, il ricordo della dignità sopravvive.

Nei murales cancellati, nei canti clandestini, nei giovani che ancora gridano i nomi dei prigionieri politici, pulsa la speranza che la rivoluzione possa un giorno tornare a essere ciò che era un tempo: una promessa di libertà.

Perché, in definitiva, il caso nicaraguense rivela la verità più amara della disillusione latinoamericana: il tradimento non distrugge solo la fiducia nei leader, ma anche la fede nella possibilità stessa di giustizia.

Di Admin

Scopri di più da Giornalesera.com

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere