De Ficchy Giovanni

“La porta dal Sud America all’Asia”, così il porto di Chancay è stato ribattezzato da Mario de las Casas, responsabile degli affari istituzionali di Cosco Shipping, la compagnia statale cinese titolare per il 60% delle quote del succitato progetto infrastrutturale da 3,5 miliardi di dollari.

Situato a circa 60 chilometri a nord della capitale peruviana Lima, il mega terminal è stato pensato come parte della Belt and road initiative (Bri), e dopo sei anni di lavori potrebbe essere inaugurato questo novembre.

A detta dei progettisti, lo scalo aumenterà enormemente il commercio tra la Cina e l’America latina in quanto sarà in grado di ospitare navi mercantili più grandi, che possono dirigersi direttamente verso l’Asia, riducendo i tempi di viaggio di due settimane per alcuni esportatori.

Guardia Costiera Cinese nel Mar Cinese Merdionale

«Il mega porto di Chancay mira a trasformare il Perù in un hub commerciale e portuale strategico tra il Sud America e l’Asia», ha detto il ministro del Commercio peruviano Juan Mathews Salazar.

A lavori conclusi, lo scalo si andrà ad aggiungere agli altri quasi 40 porti in America Latina e nei Caraibi dove la Repubblica Popolare detiene quote proprietarie.

 La scelta degli investimenti non è casuale, ma dettata da motivazioni geopolitiche in linea con i suoi obiettivi strategici, come giustamente ha ricordato sulle pagine di Diálogo il direttore del Centro di analisi dei dati sulla sicurezza dei cittadini della Repubblica Dominicana, Daniel Pou.

I porti e in generale le infrastrutture costruite all’estero da Pechino rispondono infatti a più bisogni.

L’esigenza più esplicita è quella di sviluppare forti legami commerciali con i Paesi coinvolti nell’investimento, seguita spesso da quella di migliorare i rapporti diplomatici con questi ultimi e creare partenariati di lungo corso.

Per anni la Repubblica Popolare ha scambiato prebende e investimenti con l’appoggio diplomatico nei consessi interstatali, o addirittura con il riconoscimento internazionale.

In questo ultimo caso l’America latina è stata un’area di particolare interesse per Pechino, visto che oggi ben 7 dei 13 Paesi al mondo che riconoscono Taiwan al posto della Cina comunista si trovano nel continente o nei Caraibi.

Un esempio è il caso del Nicaragua, che a dicembre 2021 ha riconosciuto quale Cina legittima la Repubblica Popolare al posto di Taiwan, seguita a marzo 2023 dall’Honduras.

Adesso è la neoeletta amministrazione di Bernardo Arévalo, a guida del Guatemala, che sembra voler favorire questo cambio di rotta al fine di espandere le relazioni commerciali con Pechino.

“Li chiamano porti a duplice uso perché hanno un uso commerciale per il carico che la Cina sta movimentando, ma in qualsiasi momento possono avere un uso militare per esercitazioni navali, a partire dal minimo indispensabile”.

“La Cina organizza un’esercitazione navale annuale chiamata ‘Invasion Drill’, che conduce nel Mar Cinese Meridionale.

 Si tratta praticamente di un addestramento per progettare come attaccare Taiwan, instillare paura, inviare un messaggio, provocare e testare l’esecuzione di ciò che farebbe la compagnia cinese Cosco Transportation […] spostando i veicoli anfibi che il regime di Pechino utilizza in quell’ esercitazione .”

Cosco Shipping Leo nel porto di Rotterdam | Wikimedia Commons

La (vera) posta in gioco delle infrastrutture portuali cinesi

Può sembrare controintuitivo, ma il dato economico alletta per lo più gli Stati del Sud America – nel 2022 il commercio tra la Cina e i Paesi dell’America latina e dei Caraibi ha raggiunto la cifra record di 485,8 miliardi di dollari.

Per un Paese non avvezzo all’economicismo come la Repubblica Popolare, motivo di maggiore interesse è rappresentato dal corollario di questi legami economici, a cominciare dalla vocazione dual use dei porti dove Pechino detiene quote di capitale.

Il giornalista argentino Agustìn Barletti ha fatto notare come tutti questi porti commerciali saranno in grado di servire come basi militari.

I moli sono infatti lunghi a sufficienza da permette di ospitare grandi unità come le portaerei, e le acque sono abbastanza profonde da consentire questo rivolgimento, che appare quantomeno coerente con quella che è stata definita da alcuni analisti come la strategia cinese dei “punti d’appoggio”.

In ottemperanza alla dottrina maoista, tuttora vigente in Cina, quest’ultima non avrebbe mai dovuto creare basi militari all’estero per non diventare una potenza imperialista come gli Stati Uniti o l’Unione Sovietica.

È così che l’unico avamposto militare sinico all’estero, situato a Gibuti e dal costo di circa 600milioni di dollari, viene definito in modo riduttivo come una “struttura logistica”.

Si tratta di uno stratagemma retorico profondamente strumentale, dato che la Cina non si pone di certo limiti morali alla creazione di questi “punti d’appoggio” in giro per il globo.

Secondo un documento riservato trapelato ad aprile dell’anno scorso, la Repubblica Popolare avrebbe infatti intenzione di creare una ragnatela di basi militari all’estero.

L’iniziativa è stata chiamata Project 141, e consta nella messa in piedi di almeno cinque avamposti e dieci siti di supporto logistico entro il 2030.

Si ritiene che Progetto 141 sia il nome in codice del piano cinese di installare basi militari in tutto il mondo. 

L’Esercito popolare di liberazione (PLA) ha attentamente progettato questa iniziativa per trarre vantaggio dal crescente supporto logistico dei regimi a lui favorevoli.

Il tentativo più recente di Pechino è una base a Cuba. 

Secondo l’ Huffington Post , L’Avana e Pechino hanno raggiunto un accordo per l’installazione di una base permanente di spionaggio elettronico nell’isola caraibica in cambio di diversi miliardi di dollari.

Oltre all’ampliamento già in corso della piccola base navale di Ream, in Cambogia, a giudicare dalla geografia delle future installazioni – Gabon, Emirati Arabi e Guinea equatoriale – pare che Pechino stia cercando di aggirare il pressing americano davanti alle sue coste, creando una rete di porti dove potersi appoggiare con le proprie flotte.

Il fine ultimo sarebbe quello di bypassare i grandi colli di bottiglia del traffico marittimo globale, controllati dalla talassocrazia a stelle e strisce, che conta su 123 basi navali in 20 Paesi esteri, e altre 97 poste in territori americani d’oltremare.

Il veicolo di questa tattica è rappresentato ancora una volta dalla Bri.

Gli Stati Uniti avevano da tempo covato il dubbio che la Cina volesse dar vita a una rete militare globale attraverso le nuove Vie della seta, e questo ha trovato conferma nel succitato documento classificato. Non a caso, i Paesi latini destinatari dei maggiori investimenti portuali hanno tutti aderito al progetto sinico.

Il caso del canale di Panama

Secondo R. Evan Ellis, professore di ricerca di studi latino-americani presso l’Army War College, attraverso le compagnie cinesi che operano nei porti, le agenzie di intelligence del Dragone potrebbero tracciare qualsiasi movimento di naviglio commerciale e non.

Questo potrebbe aiutare la Cina a capire dove limitare le rotte marittime durante un potenziale conflitto militare, o addirittura chiudere il Canale di Panama.

Niente di così impensabile: Pechino è socio di maggioranza in due porti situati all’entrata del canale, rispettivamente sulle due sponde oceaniche, ovvero il porto di Balboa e quello di Còlon.

L’economista Eddie Tapieri, esperto di relazioni sino-panamensi, ha fatto eco al timore di Ellis, facendo notare come La Cina potrebbe interferire nel sistema di controllo di questi porti, dato che le infrastrutture, insieme ai mezzi quali gru, carrelli elevatori e robot, sono tutti di proprietà cinese.

Schema del canale di Panama | Wikimedia Commons

Vale anche la pena ricordare che il vicepresidente di Cosco Shipping è membro dell’assemblea consultiva del Canale di Panama, una rappresentanza curiosa che ha sollevato domande e sospetti.

Anche se fonti vicine al canale hanno rassicurato sulla questione, è chiaro che attraverso questa sede Pechino ottiene informazioni privilegiate e sensibili, che potrebbero essere utilizzate in momenti critici, come una possibile situazione di confronto militare.

A ciò si aggiunge la parziale perdita di sovranità per lo Stato di Panama. Secondo una clausola presente nei contratti di concessione, i controlli delle autorità su quello che succede all’interno dei porti sono infatti severamente limitati.

E se ci fosse un ufficio dove vengono svolte attività segrete?

Si è chiesto Tapieri.

Ad ogni modo, sebbene sia uno snodo fondamentale dei traffici marittimi globali, il canale di Panama rappresenta solo la punta dell’iceberg del complesso sistema di scali commerciali dove la Cina sta portando avanti la sua grand strategy per sfidare la talassocrazia statunitense, che per la sola capacità di navigare indisturbata per i mari e gli oceani resta inarrivabile.

Di Admin

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