De Ficchy Giovanni

Ai membri dei cartelli della droga messicani sarebbe stata data “luce verde” dai loro capi per ingaggiare scontri a fuoco direttamente con le guardie di frontiera statunitensi – la United States Border Patrol – che pattugliano il confine col Messico.

Lunedì 27 gennaio, vicino all’isola di Fronton, in Texas, due narcos hanno sparato ad alcuni agenti di polizia americani, proprio mentre alcuni migranti stavano cercando di attraversare il Rio Grande per entrare illegalmente negli Stati Uniti.

Non è la prima volta che accade un fatto di questo tipo, ma è difficile non inquadrarlo nella risposta dei cartelli alla decisione di Donald Trump di porre rigidi controlli all’immigrazione illecita – business proficuo per i narcos, dal valore di circa 13 miliardi di dollari l’anno.

Jalisco Nueva Generación (uno dei cartelli più potenti del Messico), guidato da Nemesio Oseguera Cervantes – alias “El Mencho” – aveva già detto di essere pronto a confrontarsi con il nuovo presidente americano ancor prima del suo insediamento alla Casa Bianca, e ora sembra sia arrivato il momento.

Coerentemente con quanto promesso in campagna elettorale, Trump ha inserito i cartelli nella lista delle organizzazioni terroristiche e ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale al confine meridionale. In più, ha schierato circa 1.500 militari, coadiuvati dal supporto aereo e d’intelligence.

È così che gli ingressi illegali sarebbero diminuiti drasticamente.

Secondo Fox News, nei primi tre giorni dell’amministrazione Trump ci sarebbero stati il 35% di incontri al confine in meno rispetto agli ultimi tre giorni dell’amministrazione Biden.

Si tratta di una fonte schierata, ma cifre simili sono condivise anche da testate più imparziali.

L’offensiva di Trump contro i cartelli potrebbe tuttavia non fermarsi qui, ma anzi coinvolgere una discreta quantità di uomini e mezzi da riversare oltre il confine col Messico per cercare, attraverso una soluzione militare – richiesta da molti repubblicani -, di porre sotto controllo una delle frontiere più instabili del pianeta.

E se Trump decidesse di invadere il Messico?

La designazione dei cartelli come organizzazioni terroristiche ha formalmente aperto per Washington la possibilità di condurre operazioni militari e azioni coperte contro di loro, anche in territorio messicano e, potenzialmente, in tutta l’America Latina.

Un’opzione che non è stata scartata da Trump. Rispondendo alla stampa nello Studio Ovale poco dopo il suo insediamento, il tycoon ha infatti detto di non escludere la possibilità di impiegare le forze speciali contro i cartelli: «Il Messico probabilmente non è d’accordo, ma dobbiamo fare ciò che è giusto», ha detto il presidente.

Invero, nonostante i cartelli siano un problema anche e soprattutto per la neopresidente messicana Claudia Sheinbaum, questa considera le parole di Trump come un’ingerenza straniera negli affari del Messico, dato che quest’ultimo non ha di fatto mai chiesto l’aiuto degli Stati Uniti per sgominare i narcos che infestano il Paese.

Anzi, lo scorso 3 dicembre rifiutò il piano proposto dalla squadra di transizione di Trump riguardo un possibile intervento militare americano oltre confine. Tra le possibili opzioni ci sarebbero state proprio l’invio di kill team delle forze speciali, ma anche attacchi missilistici contro le basi dei narcos e operazioni mirate della Cia.

A ogni modo, a prescindere dalla volontà dell’amministrazione Trump e dall’opposizione del Messico, un’operazione militare oltre il Rio Grande contro i cartelli presenta molte incognite e potrebbe non essere così semplice come qualcuno a Washington si aspetta.

Innanzitutto, c’è da considerare le ritorsioni che i cartelli potrebbero mettere in atto contro un’incursione americana e che potrebbero rendere il costo politico dell’operazione troppo alto per gli States. Ad esempio, i narcos potrebbero iniziare a colpire i cittadini americani in località turistiche in Messico, come Cancún.

Non sarebbe un’opzione così assurda per delle organizzazioni criminali abituate a usare la violenza in maniera sistematica e spregiudicata, in certi casi indirizzata addirittura contro sindaci, giornalisti e qualsiasi personalità di spicco si schieri contro i loro interessi nel Paese.

Dopodiché, bisogna tenere presente anche le capacità belliche di questi attori. Addestrati alla guerriglia e armati fino ai denti – in certi casi dotati anche di sistemi complessi come droni, “narco-tank”, armi anticarro e antiaeree – i narcos non si configurano come un nemico facile da battere (lo Stato messicano è in guerra con loro dal 2006).

A proposito, il ricercatore del Cato Institute, Brandan P. Buck, lo scorso novembre aveva già suggerito prudenza ai decisori americani, sottolineando tutti i difetti del piano del team di Trump e le difficoltà a cui sarebbero andati incontro i militari statunitensi (ne avevamo parlato su Aliseo Plus).

Fatto sta che – politicamente parlando – Trump ha scommesso tanto sulla “pacificazione” del fronte sud, e, dato che i falchi e gli yes-man non mancano intorno al presidente, non è escluso che a Washington si decida di andare fino in fondo sulla questione. Soprattutto ora che a capo del Pentagono c’è Pete Hegseth, fedelissimo di Trump.

Ancora durante il suo primo mandato, stando alle dichiarazioni dall’ex segretario della Difesa Mark Esper, Trump avrebbe infatti proposto il lancio di missili contro le basi dei Narcos in Messico.

Questa manovra, però, venne bloccata direttamente dallo stesso Esper. Se questo schema dovesse riproporsi oggi, non è detto che andrebbe a finire allo stesso modo.

Di Admin

Scopri di più da Giornalesera.com

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere