
Ogni momento, siamo bombardati da notizie, notifiche, argomenti di tendenza e contenuti curati algoritmicamente, progettati per provocare una risposta emotiva.
La tecnologia moderna, anziché portare pace e stabilità, ha creato una società costantemente instabile, incerta e tesa.
Questo non è casuale.
È voluto.
Più una storia è carica di emozioni, più è probabile che venga condivisa, commentata e a cui si reagisca.
Le piattaforme dei social media, i siti web di notizie e i motori di ricerca sono ottimizzati non tanto per informare, ma principalmente per per agitare.
Gli algoritmi sono costruiti per sfruttare questa realtà, amplificando contenuti sensazionalistici che scatenano indignazione, panico e tribalismo.
L’obiettivo è semplice: mantenere le persone dipendenti dal ciclo di scorrimento apocalittico, assicurandosi che rimangano incollate ai loro schermi e, per estensione, sotto l’influenza di coloro che controllano il mondo digitale.
Ma questa era digitale di ansia è più di una semplice strategia di marketing: è una crisi esistenziale.
Søren Kierkegaard, scrivendo nel XIX secolo, previde molti dei pericoli spirituali che ora definiscono l’era dell’intelligenza artificiale.
Diagnosticò la condizione moderna come una di infinite possibilità, in cui l’uomo è paralizzato da infinite scelte e, così facendo, perde se stesso.
Ha descritto questo fenomeno come la “vertigine della possibilità”, il terrore travolgente che deriva dal rendersi conto che si potrebbe essere qualsiasi cosa ma, in realtà, non si è nulla senza impegno.
La possibilità è la categoria fondamentale dell’esistenza.
La condizione di insicurezza, di inquietudine e di travaglio connessa a questa categoria, l’angoscia è la “vertigine” che scaturisce dalla possibilità della libertà.
L’uomo sa di poter scegliere, sa di avere di fronte a sé la possibilità assoluta: ma è proprio l’indeterminatezza di questa situazione che lo angoscia.
Ma quando tutto è possibile, è come se nulla fosse possibile.
E’ l’angoscia provata da Adamo posto di fronte al divieto di gustare i frutti dell’albero della conoscenza: egli non sa ancora in che cosa consista la conoscenza, non conosce la differenza tra il bene e il male, non comprende il senso del divieto stesso.
Egli non sa che cosa accadrà, eppure è chiamato a scegliere tra l’obbedienza e la disobbedienza.
La possibilità non si riveste di positività, non è la possibilità della fortuna, della felicità, ecc.; è la possibilità dello scacco, la possibilità del nulla.
La vertigine digitale non è una diagnosi clinica; è una descrizione metaforica dell’esperienza disorientante di vivere in un mondo costantemente stimolato e mediato digitalmente.
È la sensazione di essere sopraffatti dalle informazioni, bombardati da notifiche e perennemente legati a dispositivi che promettono connessione ma spesso offrono l’opposto.
L’intelligenza artificiale incarna perfettamente questa vertigine.
Presenta un mondo senza limiti, dove conoscenza, intrattenimento e identità sono infinitamente personalizzabili.
Offre un’illusione seducente che si possa diventare qualsiasi cosa, imparare tutto ed esistere ovunque, tutto in una volta.
Ma Kierkegaard ha avvertito che questo tipo di scelta illimitata non porta alla libertà, porta alla disperazione.
Più opzioni abbiamo, più diventa difficile impegnarci in una cosa sola e, senza impegno, perdiamo il nostro senso di sé.
Oggi, la persona media consuma più informazioni in un solo giorno di quante le generazioni precedenti ne abbiano incontrate in una vita.
Questa è esattamente la trappola del mondo digitale.
Una persona può trascorrere l’intera vita online, consumando un flusso infinito di contenuti, dibattendo un numero infinito di argomenti, esplorando un numero infinito di identità digitali.
Ma alla fine di tutto, non ha costruito nulla, non si è ancorata a nulla e si sente vuota. L’intelligenza artificiale non li ha liberati; li ha resi schiavi di un’illusione di potenziale infinito.
L’angoscia è propria di uno spirito incarnato, quale è l’uomo, cioè di un essere fornito di una libertà che non è né necessità, né astratto libero arbitrio, ma libertà condizionata dalla situazione, cioè appunto dalla possibilità di ciò che può accadere.
Questa è “la disperazione di non voler essere se stessi”.
È la condizione di una persona che ha rinunciato al proprio sé autentico per uno artificiale, costantemente distratto, costantemente intrattenuto, ma mai veramente presente.
Questa è la disperazione che l’IA esacerba.
Gli algoritmi che curano le nostre esperienze modellano i nostri desideri, indirizzandoci sottilmente verso identità prefabbricate anziché consentirci di coltivare il nostro vero sé attraverso la fede e l’impegno.
Crea un mondo in cui le persone non devono mai scegliere, perché l’algoritmo fa sempre delle scelte per loro.
Elimina la necessità di avere pazienza e disciplina rendendo tutto immediatamente disponibile.
L’obiettivo del sistema tecnocratico in cui viviamo non è semplicemente quello di tenere le persone ansiose, ma di tenerle distratte.
Una persona timorosa e distratta non prega.
Una persona timorosa e distratta non costruisce.
Una persona timorosa e distratta non resiste.
Il più grande atto di sfida contro il sistema è scegliere la pace, coltivare la saggezza e confidare nella sovranità di Dio sul caos creato dal mondo.
Man mano che l’intelligenza artificiale e il controllo algoritmico diventano più sofisticati, la tentazione di arrendersi al flusso travolgente di informazioni non farà che aumentare.
Mentre l’intelligenza artificiale destabilizza le certezze secolari, le persone saranno affamate di risposte che le macchine non possono fornire. La donna disillusa dagli amici generati dall’intelligenza artificiale desidererà ardentemente una vera comunione.
L’uomo terrorizzato dalle interfacce cervello-computer desidererà ardentemente un sé che trascenda l’hardware.
Il bambino cresciuto da tutor chatbot desidererà ardentemente una verità autorevole.
Quando l’intelligenza artificiale supererà le prestazioni umane in ogni dominio cognitivo, scrivendo le nostre e-mail, diagnosticando le nostre malattie, persino creando la nostra arte, cosa ne sarà di noi?
L’identità professionale, già in rovina sotto le pressioni della gig economy, potrebbe scomparire del tutto.
L’orgoglio del falegname per il suo mestiere, la gioia dell’insegnante nello stimolare intuizioni, l’emozione della scoperta dello scienziato, questi pilastri del significato rischiano l’obsolescenza.
Tanto l’angoscia, quanto la disperazione possono avere un solo esito positivo: la fede.
Sia l’esperienza della possibilità del nulla propria dell’angoscia, sia quella della malattia mortale che rivela l’impossibilità dell’io, si risolvono soltanto quando l’uomo compie un salto qualitativo, aggrappandosi all’unica possibilità infinitamente positiva, che è Dio.
La fede è, piuttosto, il risultato di un atto esistenziale con cui l’uomo va al di là di ogni tentativo di comprensione razionale, accettando anche ciò che al vaglio della ragione o della critica storica appare assurdo.