De Ficchy Giovanni

Michele Serra, noto per aver basato parte del suo successo sull’elitarismo, ha elogiato il manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli.

Secondo alcuni esponenti della sinistra, questo manifesto è una guida per costruire un’Europa più unita, libera e democratica in questi tempi difficili.

Sabato scorso, le 30.000 persone in Piazza del Popolo a Roma, sventolanti bandiere rosse insieme a quelle europee, dovrebbero sapere che il manifesto di cui si fanno portatrici ha poco di democratico e libertario.

Altiero Spinelli, autore del “Manifesto di Ventotene” (precursore dell’integrazione europea) con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni nel 1941, fu comunista dal 1924, per poi essere espulso nel 1937.

Nel 1943 fondò il Movimento Federalista Europeo e co-fondò l’Unione dei Federalisti Europei.

Dal 1970 al 1976 fu membro della Commissione Europea, poi parlamentare italiano (1976) e infine del primo Parlamento Europeo (1979). Nel 1984 promosse un progetto di trattato per un’Unione Europea federale, adottato dal Parlamento Europeo.

Tuttavia, un’analisi più approfondita del manifesto rivela un’impronta tutt’altro che pacifista e democratica: “Attraverso questa dittatura del partito si forma il nuovo Stato ed intorno ad esso la nuova vera democrazia”.

Questa visione antidemocratica esaspera la contrapposizione tra élite e popolo, una contraddizione interna alla sinistra italiana negli ultimi decenni.

L’interpretazione politica del Manifesto di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli deve considerare che, nel contesto dei totalitarismi, esso reagiva allo Stato invasivo, tipico della cultura mediterranea, proponendo un modello federale europeo sostenuto dall’ideologia atlantica.

Il Manifesto esprime primariamente una reazione, un rifiuto necessario e conseguenziale delle proprie radici teoretiche. Il modello federalista si configura, prima di ogni analisi politologica, come panacea politica ai problemi dello stato-nazione.

La spinta del Manifesto di Ventotene verso il conflitto e l’abolizione di stati e confini in nome di un nuovo ordine europeo rappresenta una delle principali contraddizioni su cui si fonda l’Unione Europea.

Ciò deriva dal fatto che l’idea di Europa è sempre rimasta un’astrazione, alimentando conflitti tra fautori di un modello federale e confederale (il Manifesto, forse, va oltre).

Secondo gli autori, la priorità assoluta, senza la quale ogni progresso è illusorio, è l’eliminazione definitiva degli stati nazionali sovrani, considerati non solo inutili ma dannosi, al pari di organizzazioni interstatali come la Società delle Nazioni.

Date queste premesse, risulta arduo costruire un progetto comune basato unicamente sul contesto storico di riferimento. Le istituzioni europee, infatti, nacquero con un’ispirazione ben diversa dal Manifesto, promosse da tre statisti cattolici che attingevano alle comuni radici cristiane dell’Europa e si ispiravano simbolicamente al Sacro Romano Impero (non a caso, il massimo riconoscimento europeo è il premio Carlo Magno).

Pochi sanno che le stelle sulla bandiera europea rappresentano le dodici tribù d’Israele che cingono il capo dell’Assunta, e il blu richiama il manto della Madonna.

È evidente, quindi, che la narrazione europea contemporanea fatica a trovare un punto di ancoraggio solido in un passato univoco e secolarizzato.

L’enfasi esclusiva sugli eventi storici, spesso interpretati in chiave marxista o materialista, rischia di oscurare le componenti spirituali e ideali che hanno effettivamente plasmato il progetto europeo.

Si ignora, colpevolmente, come l’idea di un’Europa unita sia stata nutrita da una visione che trascende la mera convenienza economica o la necessità di bilanciare le potenze.

La spinta propulsiva originaria risiedeva in un’aspirazione a ricomporre un’unità culturale e spirituale, fondata su valori condivisi e radici millenarie, un’aspirazione che il Manifesto comunista non avrebbe mai potuto neanche concepire.

Rileggere la storia europea alla luce di questa dimensione spirituale, recuperando il ruolo dei padri fondatori e dei loro ideali, appare dunque imprescindibile per comprendere a fondo la natura e la vocazione del progetto europeo.

Solo così si potrà evitare di ridurlo a un mero accordo commerciale o a un’entità burocratica priva di anima.

.Un’Europa siffatta, orfana dei valori che l’hanno generata, sarebbe una costruzione fragile, esposta ai venti del nazionalismo egoistico e della miopia politica.

La riscoperta di questa dimensione spirituale non significa certo negare la laicità dello Stato o imporre una visione religiosa unica, ma piuttosto riconoscere il sostrato di valori comuni, di radici cristiane e umanistiche, che hanno plasmato la cultura europea e che continuano a ispirare il nostro agire.

Si tratta di recuperare il senso di appartenenza a una comunità di destino, fondata sul rispetto della dignità umana, sulla solidarietà e sulla ricerca del bene comune.

Un’Europa che sappia coniugare l’efficienza economica con la giustizia sociale, l’innovazione tecnologica con la tutela dell’ambiente, la sicurezza dei propri confini con l’apertura al mondo.

Un’Europa, in definitiva, che torni ad essere un faro di civiltà e di progresso per l’umanità intera.

In questi tempi incerti, richiamarsi a un manifesto così radicale e rivoluzionario appare un tentativo pericoloso e paradossale di esautorare Stati e popoli in favore di un superstato inesistente. Paradossalmente, proprio il riarmo, contestato dagli stessi sostenitori del manifesto, potrebbe costituirne il germe.

La sinistra celebra un testo che, anziché appianare i conflitti, rischia di aggravarli o crearne di nuovi.

Forse, di fronte all’incapacità della sinistra di proporre un’alternativa valida alle destre, gli organizzatori della manifestazione di sabato aspirano a eliminare gli Stati nazionali e creare un superstato onnipotente, proprio ciò che il loro elettorato (o quel che ne resta) aborre.

E così, mentre il mondo si dibatte tra guerre e crisi economiche, la sinistra rispolvera vecchi fantasmi, sperando forse di ritrovare una bussola smarrita. Ma la strada indicata da questo manifesto, lungi dall’essere una soluzione, sembra una ricetta per un disastro ancora maggiore.

Un’utopia pericolosa, figlia di un’epoca ormai tramontata, che ignora le peculiarità e le identità dei popoli, riducendoli a meri ingranaggi di un meccanismo impersonale e tecnocratico.

Un’Europa unita, sì, ma non a costo di cancellare secoli di storia e tradizioni.

Un’Europa dei popoli, non dei burocrati.

Un’Europa che protegga le sue frontiere, senza rinunciare ai suoi valori.

Un’Europa che sappia dialogare con il mondo, senza farsi sopraffare. Un’Europa, insomma, che sia veramente europea.

Ma forse è chiedere troppo a una sinistra che sembra aver smarrito il contatto con la realtà e con il suo stesso elettorato.

Di Admin

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