
ESTATE 1990. In carica c’è il sesto governo Andreotti e il Presidente della Repubblica è Francesco Cossiga.
Gli occhi del mondo sono puntati sul Kuwait invaso dall’Iraq e quelli dell’Italia su un appartamento romano di via Poma dove una ragazza è stata uccisa.
Davide Cervia, ex sergente della Marina esperto di guerra elettronica, uno dei pochi militari titolari del nulla osta della sicurezza Nato, non rientra a casa.
Sua moglie, Rita, lo aspetta invano, divorata dall’angoscia.
Davide è sparito nel nulla, volatilizzato come un fantasma.
Un mistero fitto, avvolto in una coltre di segreti militari e possibili trame oscure, comincia a dipanarsi.
Si parla di spionaggio, di traffici illeciti, di segreti inconfessabili che l’uomo forse conosceva.
L’Italia, distratta dai Mondiali di calcio, si interroga sulla sorte di questo militare silenzioso, capace di maneggiare informazioni delicate come un vaso di cristallo.
Le indagini brancolano nel buio, tra depistaggi e mezze verità.
Rita Cervia, una donna sola contro un sistema che sembra voler proteggere qualcosa o qualcuno, combatte per la verità, determinata a scoprire cosa è successo a suo marito.
Il caso Cervia diventa un simbolo di un’Italia opaca, dove i segreti di Stato pesano più della giustizia e la verità è una merce rara e costosa.
La sua battaglia, impari e disperata, si consuma tra le aule di tribunale e le redazioni dei giornali, un’odissea nel labirinto della burocrazia e del potere.
Rita, con la forza della disperazione, scava nel passato di Davide, cercando indizi, tracce, qualcosa che possa spiegare la sua improvvisa scomparsa. Interroga vecchi colleghi, analizza documenti sbiaditi, si aggrappa a ogni flebile speranza.
Ma il muro di omertà è spesso e invalicabile.
Le risposte sono evasive, le testimonianze reticenti, gli sguardi sfuggenti.
L’ombra lunga dei servizi segreti aleggia sulla vicenda.
Si sussurra di una missione segreta, di un incarico delicato, di un dossier scottante che Davide avrebbe dovuto consegnare.
Ma a chi?
E perché? Le domande si accumulano, senza trovare risposte definitive.
Qualcuno parla di una talpa, di un tradimento interno, di una rete di corruzione che si estende a macchia d’olio.
Altri evocano scenari internazionali, complotti orditi ai vertici del potere, intrighi che coinvolgono paesi stranieri.
Mentre l’estate infuocata del Mondiale volge al termine, il caso Cervia continua a tenere banco sulle prime pagine dei giornali.
L’opinione pubblica, divisa tra scetticismo e indignazione, si interroga sulla credibilità delle istituzioni e sulla trasparenza dello Stato.
Rita, nel frattempo, non si arrende.
Sa che la verità è là fuori, nascosta tra le pieghe di una realtà manipolata e distorta.
E continuerà a cercarla, finché non avrà ottenuto giustizia per Davide, finché la sua voce non sarà finalmente ascoltata.
La sua lotta è diventata la lotta di molti, un simbolo di resistenza contro l’ingiustizia e l’oblio, la speranza che, anche nell’Italia dei segreti, la verità possa alla fine trionfare.
Aveva l’obbligo «di mettere a disposizione dei familiari e degli inquirenti (cui fu detto che Cervia era un elettricista senza competenze che potessero essere appetibili dai Paesi stranieri, ndr) ogni elemento e dato esatto e completo».
Invece «i comportamenti omissivi e negligenti da parte di articolazioni della Marina Militare si sono protratti per un lungo periodo di tempo.
E non è stata mai opposta, neanche nel presente giudizio, alcuna particolare e rilevante secretazione di quelle informazioni che, pertanto, dai soggetti che le detenevano andavano tempestivamente e compiutamente fornite».
Nessun segreto di Stato, in apparenza
E questo è un punto cruciale nella ricostruzione della vicenda Cervia, l’ufficiale di Marina morto in circostanze misteriose nel 1990. Il tribunale insiste: la Marina Militare aveva il dovere di trasparenza, un dovere che, a quanto pare, non è stato rispettato.
L’accusa è pesante: aver nascosto informazioni rilevanti, aver fornito un quadro distorto della figura di Cervia, minimizzando le sue competenze e il suo ruolo.
Un’omissione che, secondo i giudici, ha ostacolato la ricerca della verità e prolungato la sofferenza dei familiari.
Le motivazioni complete della sentenza, dalle quali emerge un quadro inquietante di reticenze e silenzi istituzionali.
.E non si tratta solo di negligenza, ma di una vera e propria strategia, secondo le prime interpretazioni. Una strategia volta a proteggere non si sa bene cosa o chi. Quali segreti inconfessabili celava la morte di Cervia?
Quali interessi superiori si volevano tutelare?
Domande che rimangono ancora sospese, come macigni.
La sentenza, in questo senso, rappresenta una breccia in un muro di gomma, un tentativo di squarciare il velo di omertà che ha avvolto la vicenda per troppi anni.
Ma è solo l’inizio.
La battaglia per la verità è ancora lunga e tortuosa.
I familiari di Cervia, da sempre in prima linea, non intendono arrendersi.
Chiedono giustizia, non solo per il loro congiunto, ma anche per ristabilire la fiducia nelle istituzioni, una fiducia profondamente scossa da questo caso emblematico di opacità e depistaggi.
Un caso che, al di là delle responsabilità individuali, pone interrogativi inquietanti sul funzionamento del potere e sulla sua capacità di manipolare la realtà.
Nel dossier dell’inchiesta che di fatto non c’è mai stata si possono leggere gli appunti del Sismi e del Sisde, in cui si ipotizza di un’azione di Paesi come Libia e Iraq, cui il nostro Stato vendeva armi in tempi in cui stava per iniziare la guerra del Golfo.
Nazioni che, dopo l’embargo Onu, non potevano più contare sull’assistenza tecnica dei Paesi venditori.
E allora, si legge tra le righe, un sabotaggio diventava una tragica “exit strategy” per non scontentare gli alleati e, contemporaneamente, eliminare il problema dell’assistenza negata. Un’ipotesi, certo, avvolta nel mistero e mai provata, ma che aleggia come uno spettro sul disastro di Ustica.
Appunti sbiaditi, testimonianze reticenti, depistaggi e silenzi istituzionali hanno contribuito a creare una cortina fumogena che ancora oggi impedisce di fare piena luce sulla verità.
E mentre il tempo passa inesorabile, le famiglie delle vittime continuano a chiedere giustizia, a invocare risposte che sembrano destinate a rimanere per sempre intrappolate nel labirinto dei segreti di Stato.
Un labirinto dove la ragion di Stato, spesso, sembra prevalere sulla sacrosanta ricerca della verità.
E a suffragare questa tesi complessa, arrivano le testimonianze frammentarie, le incongruenze nei resoconti ufficiali, i silenzi assordanti. Un puzzle di indizi che, se ricomposto, dipinge un quadro oscuro, un intreccio di interessi geopolitici superiori che avrebbero sacrificato un aereo civile e ottantuno vite innocenti sull’altare della ragion di Stato.
C’è chi parla di un missile vagante, magari durante un’esercitazione NATO finita male, di un errore fatale coperto con una cortina di fumo. Altri, più complottisti, sussurrano di un duello aereo inscenato per eliminare un bersaglio specifico, un personaggio scomodo a bordo del DC-9. La verità, forse, non verrà mai a galla, sommersa per sempre negli abissi del mar Tirreno, insieme ai resti del velivolo e alle speranze di giustizia per le famiglie delle vittime. Ma il dubbio, come un tarlo, continua a rodere la coscienza collettiva italiana, un monito costante sulla fragilità della democrazia e sul peso insostenibile dei segreti di Stato.