Giovanni De Ficchy
Esperto di Economia


La maggior parte degli analisti prevede che la Cina sarà il Paese perdente della guerra commerciale avviata da Donald Trump.
Ma questa valutazione è corretta?
E inoltre il confronto tra le due maggiori economie del mondo è solo commerciale?
Assolutamente no. Sarebbe riduttivo e fuorviante limitare la competizione tra Stati Uniti e Cina a un semplice calcolo di deficit e surplus commerciali. La rivalità è molto più ampia e complessa, toccando sfere geopolitiche, tecnologiche, ideologiche e militari.
Pensiamo alla corsa all’egemonia tecnologica, con la Cina che punta a diventare leader in settori chiave come l’intelligenza artificiale, il 5G, i veicoli elettrici e la biotecnologia.
Gli Stati Uniti vedono questa ambizione come una minaccia alla propria supremazia e cercano di contrastarla con restrizioni all’export, incentivi alla produzione interna e investimenti in ricerca e sviluppo.
Poi c’è la questione geopolitica, con la Cina che espande la sua influenza nel Mar Cinese Meridionale, in Africa e in America Latina, sfidando l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti. La Belt and Road Initiative, ad esempio, è un progetto infrastrutturale colossale che mira a collegare la Cina con il resto del mondo, rafforzandone la posizione economica e politica.
Non dimentichiamo poi le differenze ideologiche, con un sistema democratico-liberale occidentale che si confronta con un modello autoritario a partito unico. Questa dicotomia si riflette in temi come i diritti umani, la libertà di espressione e il ruolo dello Stato nell’economia.
Infine, la dimensione militare.
La Cina sta rapidamente modernizzando le proprie forze armate, aumentando le tensioni nel Pacifico e sollevando preoccupazioni negli Stati Uniti e nei suoi alleati. La questione di Taiwan, in particolare, rappresenta un potenziale focolaio di conflitto.
Quindi, ridurre il confronto tra Stati Uniti e Cina a una semplice questione commerciale significa ignorare la miriade di altre dimensioni che lo caratterizzano.
È una competizione globale per il potere e l’influenza, che avrà un impatto significativo sul futuro del mondo.
Il primo traguardo delle misure commerciali del presidente Usa non è né di tipo economico né commerciale, piuttosto riguarda una proiezione di potenza, il riconoscimento, da parte dei suoi avversari e alleati, che gli Stati Uniti sono disposti a usare il loro peso economico per ottenere vantaggi strategici.
Che si tratti di dazi sull’acciaio, sanzioni contro la Cina o la rinegoziazione del NAFTA, l’obiettivo primario sembra essere quello di riaffermare la leadership americana in un mondo sempre più multipolare.
L’impatto economico di queste azioni è secondario, quasi un effetto collaterale accettabile pur di dimostrare che Washington ha ancora la capacità e la volontà di plasmare le regole del gioco globale.
In quest’ottica, le negoziazioni diventano più un confronto di volontà che una ricerca di accordi reciprocamente vantaggiosi ,dove l’obiettivo primario non è la creazione di valore condiviso, bensì l’affermazione del proprio potere.
Le parti in gioco si irrigidiscono su posizioni predefinite, alimentando una dinamica di stallo o, peggio, di conflitto aperto.
La flessibilità e la capacità di ascolto attivo, elementi cruciali per individuare sinergie e possibili compromessi, vengono sacrificate sull’altare della supremazia.
Si assiste ad una progressiva erosione della fiducia, che rende sempre più difficile superare le barriere ideologiche e raggiungere soluzioni sostenibili nel lungo periodo.
In questo scenario, la diplomazia cede il passo alla mera tattica, e la prospettiva di un futuro collaborativo svanisce, lasciando spazio ad una competizione sterile e potenzialmente distruttiva.
Pur essendo spesso presentati come strumenti economici per proteggere la produzione nazionale o incentivare la reindustrializzazione, i dazi raramente hanno avuto una funzione esclusivamente commerciale.
Basti pensare allo Zollverein, l’unione doganale tedesca del 1834, ideata da Friedrich List per favorire gli scambi tra gli stati della Confederazione e marginalizzare l’Austria: alcuni storici lo ritengono un fattore chiave, insieme all’opera di Bismarck, per l’unificazione tedesca del 1871.
Similmente, i dazi britannici su stampa e tè nelle colonie americane contribuirono a fomentare l’indipendenza del Nord America.
Questi gravami, percepiti come ingiusti e imposti senza una reale rappresentanza degli interessi coloniali nel Parlamento britannico, acuirono un crescente senso di alienazione.
L’imposizione unilaterale di tasse come lo Stamp Act e il Tea Act, senza il consenso delle assemblee coloniali, alimentò la convinzione che la Gran Bretagna stesse agendo in modo tirannico e che i diritti dei coloni inglesi venissero calpestati.
Il famoso slogan “No taxation without representation” divenne un grido di battaglia, unificando i coloni di diverse estrazioni sociali e geografiche nella loro opposizione al dominio britannico e ponendo le basi per la Rivoluzione Americana.
Anche oggi i dazi promossi dal presidente Usa raccontano molto del “cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo.
Un’epoca di rivalità strategiche sempre più esplicite, dove la retorica del libero scambio cede il passo alla dura legge della realpolitik economica.
Non è solo una questione di tariffe su acciaio e alluminio, o di minacce su importazioni di auto.
È una ridefinizione delle alleanze, un braccio di ferro per la supremazia tecnologica e, in definitiva, un tentativo di riscrivere le regole del gioco commerciale globale.
Si assiste ad un’America che, pur restando una superpotenza, si interroga sul suo ruolo nel mondo e sembra propensa a privilegiare gli interessi interni, anche a costo di incrinare rapporti consolidati.
E l’Europa, in questo scenario, è chiamata a trovare una sua voce, una strategia che le permetta di difendere i suoi valori e i suoi interessi, senza farsi schiacciare dalle dinamiche aggressive delle superpotenze.
Un compito tutt’altro che semplice, che richiede unità d’intenti, visione a lungo termine e una buona dose di pragmatismo.
La posta in gioco è alta: il futuro del sistema multilaterale e la prosperità delle nostre economie.
.Le conseguenze di questa nuova era di competizione globale si fanno sentire in ogni angolo del pianeta, dai mercati finanziari alle catene di approvvigionamento.
Le imprese, strette tra dazi e incertezze, sono costrette a rivedere le proprie strategie, a diversificare i rischi e a investire in innovazione per rimanere competitive.
I consumatori, d’altro canto, si trovano a dover fare i conti con prezzi più alti e una minore scelta di prodotti. La globalizzazione, che per decenni ha promesso prosperità e interconnessione, sembra essere in ritirata, lasciando spazio a un mondo più frammentato e conflittuale.
E in questo contesto mutevole, l’Europa non può permettersi di rimanere inerte.
Deve rafforzare la propria unità interna, superare le divisioni che la indeboliscono e investire in settori strategici come la tecnologia, l’energia e la difesa.
Deve, inoltre, tessere nuove alleanze con paesi che condividono i suoi valori e i suoi interessi, creando un fronte comune per difendere il multilateralismo e un sistema commerciale equo e basato su regole.
Ma soprattutto, l’Europa deve riscoprire il suo ruolo di mediatore globale, di ponte tra culture e di promotore di pace e cooperazione.
Solo così potrà affrontare le sfide del futuro e contribuire a costruire un mondo più stabile e prospero per tutti.
Il tempo delle esitazioni è finito: è il momento dell’azione e della responsabilità.
La globalizzazione, con la delocalizzazione e la centralità dei servizi, ha accelerato processi che generano malcontento interno.
Il presidente USA interpreta la rivolta del ceto medio – operai, artigiani conservatori – che anela al sogno americano, desiderio acuito dall’attuale competizione imperialistica, dove la conquista territoriale riemerge.
I dazi di Trump, letti in questa ottica di potere tra stati, sono economicamente inefficaci e inflazionistici.
Come evidenziato da Paul Krugman, il commercio si basa su filiere e tessuto industriale, non su barriere doganali.
Se l’obiettivo è imperialista e non economicista, il solo annuncio di certe misure preoccupa però gli imprenditori
Il rischio è una fuga di capitali, un’erosione della base produttiva, un disinvestimento silenzioso ma inesorabile.
Perché l’imprenditore, per quanto avido di guadagno, cerca stabilità, prevedibilità, un orizzonte chiaro.
L’imperialismo, anche quello velato di retorica progressista, è per sua natura destabilizzante, imprevedibile, incline a forzature che alterano le regole del gioco. Si preferisce, insomma, un mercante a un conquistatore, un bilancio in attivo a un bottino incerto, per quanto allettante.
.E questo vale tanto per il piccolo artigiano quanto per la multinazionale.
L’imprenditore, in fondo, è un calcolatore, un ottimizzatore di risorse.
Può tollerare una certa dose di incertezza, anzi, a volte la ricerca, la sfrutta per innovare, per guadagnare un vantaggio competitivo.
Ma l’incertezza generata da politiche predatorie, da un’ingerenza percepita come ostile, è un’altra cosa.
Questo atteggiamento non è sintomo di superficialità, ma di una profonda comprensione della realtà, che raramente si presenta in forma definitiva e cristallizzata.
Al contrario, accoglie la possibilità di errore come parte integrante del processo di apprendimento e di crescita. Abbraccia la sperimentazione, anche quella che apparentemente sembra infruttuosa, sapendo che da ogni tentativo, anche dal fallimento, si possono estrarre informazioni preziose.
La vera rigidità, in questo senso, è la paura di sbagliare, la paralisi di fronte all’ignoto. Chi invece sa navigare nell’incertezza, trasformandola in un’opportunità, si dimostra resiliente, adattabile e, in definitiva, vincente.
Pensa fuori dagli schemi, osa dove altri si fermano, e trova soluzioni dove altri vedono solo problemi.
E, cosa ancora più importante, coltiva una mentalità aperta, disposta a rivedere le proprie convinzioni alla luce di nuove evidenze, consapevole che il mondo è in continuo cambiamento e che solo chi sa adattarsi può sopravvivere e prosperare.
È un rischio non calcolabile, un fattore che mina le fondamenta stesse del suo business.
Meglio allora cercare lidi più tranquilli, dove le regole sono chiare, il governo è un partner affidabile, e la crescita, seppur modesta, è una costante.
La promessa di un guadagno facile e immediato, ottenuto a costo di una perdita di autonomia e di una esposizione a rischi incontrollabili, è una sirena a cui pochi, in fin dei conti, sono disposti a cedere.
La prudenza, alla lunga, paga sempre.
E il capitale, si sa, è un animale timido: si spaventa facilmente e, quando lo fa, scappa lontano.
