Nel cuore del Rinascimento, tra inquisitori e fiamme, un uomo sognava l’infinito.

Giordano Bruno non cercava solo di ricordare: voleva conoscere tutto, unire cielo e terra, accedere ai segreti dell’universo.

Per farlo, inventò qualcosa di incredibile: le Ruote della Memoria.

Le “Ruote della Memoria” associate a Giordano Bruno non sono un’invenzione nel senso moderno del termine, ma rappresentano una rielaborazione creativa e avanzata delle tecniche mnemotecniche classiche, in particolare del cosiddetto “ars memoriae” o arte della memoria, già sviluppata nell’antichità e nel Medioevo.

Le ruote sono dischi concentrici mobili su cui Bruno organizzava simboli, lettere, immagini e concetti, con l’obiettivo di:

con l’obiettivo di memorizzare informazioni complesse, manipolarle mentalmente, e generare nuove idee. Non si trattava di semplici strumenti mnemonici, ma di vere e proprie macchine del pensiero.

Attraverso la combinazione e la ricombinazione dei simboli sulle ruote, Bruno cercava di svelare le connessioni nascoste tra le cose, di scoprire l’architettura occulta dell’universo, e di accedere a una comprensione più profonda della realtà.

Le ruote, insomma, erano per lui delle mappe cognitive, dei diagrammi dinamici che permettevano di navigare nel mare del sapere e di tracciare nuove rotte verso la conoscenza.

Erano strumenti alchemici, capaci di trasformare la materia bruta dell’informazione in oro puro: l’intuizione e la sapienza.

• potenziare la memoria;

• favorire la conoscenza intuitiva e filosofica;

• connettere il mondo sensibile con quello intelligibile.

Le ruote venivano fatte ruotare una sull’altra per creare combinazioni di immagini mentali che aiutassero a ricordare idee complesse o a generare nuove associazioni concettuali.

e sue ruote non servivano solo a ricordare: erano strumenti di illuminazione interiore e di accesso al divino. Ruotavano silenziose, eppure dentro di sé risuonavano i canti degli antenati, le preghiere sussurrate nei templi dimenticati.

Ogni giro era un passo indietro, un’immersione nel mare profondo della memoria collettiva.

Ma non si trattava solo di ripercorrere il passato; le ruote, una volta messe in moto, creavano un vortice, un portale attraverso il quale l’anima poteva elevarsi.

Chi le osservava con cuore puro, chi si lasciava avvolgere dal loro ritmo ipnotico, percepiva un’eco lontana, un richiamo ancestrale.

Vedeva il proprio riflesso distorto eppure più nitido, un’immagine di sé liberata dalle catene del tempo e dello spazio. Le ruote non offrivano risposte facili, non svelavano misteri con un semplice sguardo. Richiedevano dedizione, abbandono, la volontà di perdersi per ritrovarsi.

Erano la chiave per aprire la porta che conduceva al giardino interiore, dove l’anima, assetata di conoscenza, poteva finalmente abbeverarsi alla fonte della saggezza eterna.

Un viaggio impervio, costellato di dubbi e paure, ma illuminato dalla promessa di una comprensione più profonda del proprio essere e del legame indissolubile che univa ogni creatura al Tutto

Bruno si rifà a tecniche antiche (Cicerone, Quintiliano, San Tommaso, Ramon Llull), ma le supera dando alle ruote un valore cosmologico e magico, non solo didattico.

Per lui, memorizzare significava penetrare l’essenza del reale.

Le sue ruote non servivano solo a ricordare: erano strumenti di illuminazione interiore e di accesso al divino.

Bruno ne parla nei suoi scritti più importanti sull’arte della memoria, tra cui:

• De umbris idearum (1582)

• Ars memoriae (1582)

• Cantus Circaeus (1582)

• De imaginum compositione (1591)

In queste opere descrive sistemi complessi di ruote, talvolta con decine di livelli, su cui dispone lettere, segni zodiacali, divinità, concetti filosofici.

Curiosità

• Le ruote di Bruno sono state definite da alcuni studiosi “una macchina proto-computazionale” per la loro capacità combinatoria.

• Alcuni vedono in esse una forma primitiva di intelligenza artificiale dell’epoca rinascimentale.

Dischi rotanti, pieni di simboli, lettere, figure cosmiche e divine.

Non un gioco.

Non una semplice tecnica.

Una macchina mentale per attraversare il reale.

Ogni combinazione svelava un pensiero nuovo, ogni rotazione era un viaggio tra mondi visibili e invisibili.

Un proto-computer mistico ante litteram.

Un’intelligenza artificiale alchemica, fatta di pensiero e fuoco sacro.

Bruno non fu arso solo per le sue idee sull’infinito.

Certo, l’audace cosmologia che rovesciava il geocentrismo tolemaico, l’affermazione di un universo senza limiti, pullulante di mondi innumerevoli, abitati forse da altre intelligenze, costituiva un’eresia radicale, una sfida diretta alla concezione del creato sancita dalla Chiesa. Ma ridurre la sua condanna a una mera questione scientifica, a uno scontro tra la “nuova” astronomia e il dogma medievale, sarebbe una semplificazione eccessiva, un travisamento della complessa trama che portò il Nolano al rogo in Campo de’ Fiori.

Bruno era un filosofo, un mago, un eretico a tutto tondo. Le sue dottrine, imbevute di ermetismo, di neoplatonismo e di un panteismo spinto fino al limite del materialismo, toccavano nervi scoperti del cristianesimo.

Non si limitava a contestare l’architettura dell’universo; metteva in discussione la stessa natura di Dio, la Creazione, l’Incarnazione, la necessità della Rivelazione e della mediazione ecclesiastica.

La sua critica era profonda, viscerale, animata da un’intolleranza feroce verso ogni forma di autorità intellettuale e spirituale.

Era un ribelle, un iconoclasta, un provocatore che non si risparmiava accuse e invettive contro papi, cardinali e teologi. Considerava la religione cristiana una superstizione, un’impostura, uno strumento di potere nelle mani di una casta corrotta e avida.

E poi c’era la sua ostinata volontà di non abiurare. Bruno ebbe l’opportunità di salvarsi, di ritrattare le sue posizioni, di chiedere perdono.

Ma rifiutò. Preferì la morte alla sottomissione, la fedeltà alle proprie idee alla viltà del compromesso.

In questo, forse, risiede la vera chiave per comprendere la sua tragica fine: non tanto le sue teorie cosmologiche, quanto la sua indomabile sete di libertà intellettuale, la sua irriducibile avversione a ogni forma di costrizione e di oscurantismo.

Furono queste, forse più dell’infinito, le fiamme che lo divorarono.

Fu arso perché voleva ricordare tutto ciò che il potere voleva far dimenticare.

Di Admin

Scopri di più da Giornalesera.com

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere