Giovanni De Ficchy

Papa Francesco ha salvato la Chiesa da sé stessa, rivelandone però anche i limiti strutturali, forse insuperabili.
Eletto nel 2013 dopo le dimissioni di Benedetto XVI, che aveva ceduto di fronte alle proprie difficoltà, ha raccolto un’eredità complessa.
Ratzinger aveva schierato la Chiesa come argine contro la modernità, un baluardo di resistenza al vuoto del consumismo, all’aggressività delle degenerazioni terroristiche dell’Islam, al relativismo dei valori che in nome del quieto vivere porta a non avere più bussole morali.
Un disegno ambizioso, certo, che vedeva nella tradizione non un peso morto, ma un serbatoio di saggezza per affrontare le sfide del presente.
Un progetto che si scontrava, inevitabilmente, con le spinte centrifughe di una società sempre più liquida e refrattaria a qualsiasi forma di dogma.
La sua figura, per questo, rimane divisiva: per alcuni un profeta coraggioso, capace di denunciare le derive etiche del mondo contemporaneo; per altri, un conservatore arroccato su posizioni anacronistiche, incapace di dialogare con le nuove istanze.
Ma nessuno può negare la sua lucidità nell’analisi dei pericoli che minacciano la civiltà occidentale, dalla perdita del senso del sacro alla dittatura del pensiero unico.
In questa Chiesa confusa emerge Jorge Mario Bergoglio, papa “dalla fine del mondo”: un vescovo di Buenos Aires con radici piemontesi, ma non europeo nello stile, nel pensiero e nei valori.
Un uomo che ha saputo parlare alla pancia della gente, al cuore delle periferie esistenziali, più che al cervello dei teologi.
Un papa che ha scelto la semplicità ostentata, quasi francescana, contro i fasti e i rituali di una curia romana spesso autoreferenziale e distante.
Bergoglio ha scosso il Vaticano, ha denunciato la “mondanità spirituale”, ha invocato una Chiesa povera per i poveri.
Ma questa rivoluzione gentile, questo tentativo di riportare il Vangelo al centro, ha anche suscitato resistenze, malumori, accuse di populismo e di ambiguità dottrinale.
C’è chi lo vedeva come un profeta, un riformatore coraggioso, e chi lo considerava un demagogo, un pericolo per l’ortodossia.
In ogni caso, Jorge Mario Bergoglio è stato un personaggio che non lasciava indifferenti, un papa che ha segnato, un’epoca di transizione e di incertezza per la Chiesa Cattolica.
Il suo pontificato, un mix di pragmatismo sudamericano e slancio missionario, è stato un cantiere aperto, un laboratorio di idee e di azioni che cerca di dare un nuovo volto al cattolicesimo nel terzo millennio.
Resta da vedere se questa “Chiesa in uscita”, come la definiva Bergoglio, riuscirà a superare le sue divisioni interne e a rispondere alle sfide di un mondo sempre più secolarizzato e globalizzato.

Un’eredità complessa, la sua, che continua a interrogarci sul ruolo della fede in un’epoca di incertezze e cambiamenti epocali.
La maggior parte delle persone si congeda da questo mondo in forma privata, e dunque concede a chi resta il tempo di gestire le emozioni, di accettare il distacco, per chi crede di formulare una preghiera.
Per i Papi, a differenza dei monarchi, la vita è integralmente pubblica e ostentata, dalle cartelle cliniche alle comunicazioni del decesso, evento umano e politico di portata mondiale.
Jorge Mario Bergoglio, privilegiando l’umanità al ruolo, si è avvicinato a molti, forse più ai non credenti che ai cattolici.
Questa scelta ha però esposto le sue fragilità, vanità e, con l’età, una certa perdita di lucidità.
Queste crepe, prima appena visibili sotto la patina del successo, ora si sono allargate, mostrando un’immagine meno eroica e più umana, fin troppo umana.
Il desiderio di rimanere al centro dell’attenzione, di essere riverito e celebrato, lo ha spinto a decisioni avventate, a dichiarazioni sopra le righe, a inseguire chimere che un tempo avrebbe deriso.
La saggezza, che si presumeva acquisita con gli anni, sembra essersi trasformata in ostinazione, in una difficoltà crescente ad accettare il cambiamento e a riconoscere i propri limiti.
Gli adulatori, sempre pronti a complimentarsi e a rafforzare le sue convinzioni, non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, isolandolo ulteriormente dalla realtà e alimentando un ego già ipertrofico.
Il declino, inesorabile come il tempo, si manifesta ora in gesti maldestri, in discorsi sconnessi e in un’incapacità di comprendere appieno le conseguenze delle proprie azioni.
Francesco è stato un Papa popolare e populista, che ha cercato di salvare la Chiesa da sé stessa.
No, è soltanto un Papa che applica il populismo sudamericano al potere della Chiesa, toglie sacralità all’istituzione per accentrare tutto su di sé, mette l’uomo, il personaggio, davanti al pontefice, vuole piacere ai non credenti più di quanto si preoccupi di guidare i fedeli, dicono i suoi critici.
E poi, aggiungono, c’è quel suo parlare diretto, a volte sbrigativo, che disorienta i più tradizionalisti, quell’atteggiamento da “uno di noi” che mina la reverenza secolare.
Un Papa che preferisce le periferie esistenziali alle sacre stanze, i migranti ai cardinali, la carezza al rimprovero. Un Papa che, secondo i suoi detrattori, sta facendo a pezzi la Chiesa, smantellando dogmi e rituali per rincorrere un consenso effimero, scambiando la missione eterna con l’applauso mondano.
Un Papa, insomma, più attento ai sondaggi d’opinione che alle Scritture, più interessato a riempire le piazze che le anime.
Un Papa, chiosano amaramente, che ha dimenticato di essere il Vicario di Cristo per diventare il leader di un movimento sociale.
Ma non è sempre stato all’altezza di quello che predicava.
E questo, diciamocelo, è un problema.
Un Papa che parla di povertà e umiltà, ma che vive nel lusso del Vaticano, inevitabilmente solleva critiche.
Un Papa che condanna il carrierismo ecclesiastico, ma che poi nomina cardinali persone a lui fedeli, crea divisioni.
Un Papa che predica l’apertura verso i gay e i divorziati, ma che non cambia la dottrina, lascia tutti a metà strada, scontentando sia i progressisti che i conservatori.
Francesco ha avuto il coraggio di denunciare le piaghe della Chiesa: la pedofilia, la corruzione, l’avidità. Ha cercato di riformare la Curia, di dare più potere ai vescovi, di riportare la Chiesa alla sua missione originaria.
Ma la resistenza interna è stata forte, fortissima.
E forse, alla fine, la sua rivoluzione è rimasta incompiuta, un sogno spezzato contro il muro di gomma degli interessi e delle tradizioni.
Resta l’immagine di un Papa che ha provato a fare la cosa giusta, anche quando era difficile e impopolare.
Un Papa che ha parlato al cuore della gente, al di là delle appartenenze religiose.
Un Papa che, nonostante tutto, ha lasciato un segno indelebile.
Ma che, forse, poteva fare di più.
O forse, semplicemente, era troppo solo.