De Ficchy Giovanni

Con urne ancora aperte ma dati inequivocabili, emerge un chiaro verdetto politico: scarsa adesione degli italiani all’appello delle opposizioni. L’affluenza del 16,2% alle 19 di domenica 8 giugno conferma che il quorum non sarà raggiunto, previsione che nemmeno la giornata di lunedì potrà smentire.
Un risultato che segna una sconfitta per chi auspicava un cambio di rotta attraverso questo strumento.
Le urne deserte rappresentano una risposta eloquente, un segnale di disinteresse o forse di rassegnazione da parte dell’elettorato.
Si attendono ora i dati definitivi, ma la tendenza è ormai chiara: l’iniziativa referendaria si è infranta contro il muro dell’indifferenza.
Le motivazioni dietro questo flop sono molteplici e complesse.
Non si tratta solo di un dato tecnico.
È un dato politico, e dice che la spallata tentata da Elly Schlein, Giuseppe Conte, Maurizio Landini, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli non è riuscita.
Anzi, a guardare i numeri delle piazze, si direbbe che la distanza tra il cosiddetto campo largo e il Paese reale sia aumentata.
Quando il boomerang ritorna: Landini, Schlein e Conte, dopo aver trasformato il referendum rispettivamente in un atto contro il governo, una lotta alla precarietà e alla destra padronale, e un motivo di crisi governativa in caso di vittoria del Sì, ora ne subiscono le conseguenze. L’affluenza sotto il 25% è una disfatta politica, che rivela l’irrilevanza di chi, mobilitando invano, vede le proprie parole d’ordine (giustizia sociale, lavoro dignitoso, diritti) ignorate o percepite come strumentali.

La débâcle è servita. Il referendum, da termometro politico, si è trasformato in cartina tornasole dell’attuale disinteresse verso le liturgie partitiche e le battaglie ideologiche d’antan.
Un campanello d’allarme per una sinistra che, incapace di rinnovarsi e di intercettare i bisogni reali del Paese, si ritrova a inseguire fantasmi del passato, illudendosi di poter ancora mobilitare le folle con slogan triti e ritriti.
La scarsa partecipazione al voto non è solo un segnale di disaffezione verso la politica, ma anche una chiara indicazione di come le narrazioni proposte da questi leader siano percepite come distanti dalla vita quotidiana dei cittadini.
Un’occasione persa per rilanciare un dibattito serio e costruttivo sul futuro del lavoro e sulla giustizia sociale, trasformata invece in un’ennesima sterile polemica politicista.
Un fallimento che interroga le leadership di un’opposizione incapace di costruire un’alternativa credibile, di intercettare le paure e le speranze di un elettorato sempre più volatile e disorientato.
E che, soprattutto, sembra incapace di fare autocritica, preferendo rifugiarsi in un racconto autoassolutorio che non fa altro che allontanare ulteriormente la possibilità di un’alternativa di governo.
C’è chi parla di una scarsa informazione sul tema, chi di una campagna referendaria poco incisiva, chi ancora di una generale disillusione verso gli strumenti di democrazia diretta.
Al di là delle singole cause, resta il dato di fatto: un’occasione persa per dare voce ai cittadini e per incidere sulle decisioni che riguardano il futuro del paese.
E così, mentre il mondo cambia a velocità vertiginosa, la sinistra italiana sembra prigioniera di un loop temporale, incapace di scrollarsi di dosso le scorie ideologiche e di abbracciare una visione moderna e pragmatica.
Il risultato è un progressivo allontanamento dall’elettorato, sempre più disilluso e propenso a cercare risposte altrove, in movimenti populisti o in un centrodestra che, pur con le sue contraddizioni, appare più vicino alle esigenze concrete dei cittadini.
Urge un cambio di rotta, un’analisi spietata degli errori commessi e una profonda riflessione sul futuro, altrimenti il rischio è quello di un’irrilevanza politica irreversibile.

Ora la palla passa di nuovo alla politica, chiamata a farsi carico delle istanze che non sono state espresse attraverso il voto. Un compito arduo, in un clima di sfiducia e di disinteresse crescente.
Forse sarebbe stato ingenuo aspettarsi un risultato diverso, in un’epoca in cui la partecipazione attiva sembra cedere il passo all’indifferenza e alla rassegnazione.
Ma la delusione rimane, soprattutto perché si è persa l’opportunità di sperimentare un modello decisionale più inclusivo e partecipativo.
Ora, il rischio è che questa sconfitta referendaria rafforzi ulteriormente la distanza tra i cittadini e le istituzioni, alimentando quel senso di impotenza che pervade sempre più la società.
Sarà fondamentale, quindi, che la politica sappia ascoltare e interpretare il malcontento diffuso, traducendolo in azioni concrete e in risposte efficaci.
Altrimenti, il flop referendario rischia di diventare l’ennesimo segnale di una crisi profonda, non solo della democrazia diretta, ma della democrazia stessa.