16 giugno 2025
Mentre il conflitto tra Israele e Iran si è ormai trasformato in una guerra aperta che minaccia la stabilità dell’intero Medio Oriente, tornano alla mente parole profetiche attribuite al generale Moshe Dayan, uno dei padri fondatori della difesa israeliana: “Se Israele cadrà, porterà con sé tutto l’Occidente”.
Non era solo una dichiarazione di orgoglio nazionale o di determinazione militare. Era — e resta — un monito geopolitico: Israele non è solo uno Stato del Medio Oriente, ma un avamposto dell’Occidente stesso, nel cuore di una delle aree più instabili e strategicamente cruciali del mondo.
Israele come specchio dell’Occidente
Sin dalla sua nascita nel 1948, Israele ha rappresentato per l’Occidente — e in particolare per gli Stati Uniti e l’Europa — molto più di un semplice alleato. È stato visto come una democrazia occidentale trapiantata in un contesto ostile, un bastione di valori condivisi: pluralismo, tecnologia, diritti (pur tra contraddizioni), e soprattutto, una forza militare affidabile in un mondo arabo e islamico percepito come instabile.
In cambio, Israele ha ricevuto sostegno militare, intelligence, investimenti, e un appoggio politico che ha resistito a governi e crisi di ogni colore.
Oggi, con i razzi iraniani che piovono su Tel Aviv, con le truppe israeliane mobilitate su più fronti, e con il rischio concreto di un’escalation regionale, quell’identificazione torna sotto i riflettori. E con essa, la domanda: può davvero l’Occidente sopravvivere al collasso di Israele?
La fragilità delle democrazie di confine
Israele, come l’Ucraina, come Taiwan, è una democrazia di confine. Questi Stati sono linee di faglia tra mondi opposti, e la loro tenuta è anche quella dei sistemi che rappresentano. Se Israele dovesse soccombere, o anche solo ritirarsi da un ruolo attivo nella regione, l’effetto domino sarebbe immediato: rafforzamento dell’asse russo-cinese-islamista, destabilizzazione del Mediterraneo orientale, collasso delle intese regionali con Egitto, Giordania, Marocco e Stati del Golfo.
Ma c’è di più: sarebbe una vittoria simbolica contro l’idea stessa di Occidente, contro il modello liberale, contro l’alleanza tra democrazia e sicurezza.
L’Europa guarda, ma da lontano
L’Italia e l’Europa, oggi, osservano con preoccupazione. Ma si muovono con lentezza. Le condanne formali, gli appelli alla de-escalation, le dichiarazioni “equidistanti” sembrano scollegate dal senso di urgenza che Moshe Dayan — e molti altri dopo di lui — hanno sempre sottolineato: la sorte di Israele non è un affare regionale, è un fronte dell’Occidente stesso.
Non si tratta di condividere ogni scelta politica di Tel Aviv. Si tratta di comprendere che la tenuta strategica e culturale dell’Occidente passa anche da qui: dalla capacità di proteggere i propri bastioni nei luoghi più difficili.
Nel 2025, quel vecchio ammonimento risuona con una forza nuova. Se Israele cadrà, non cadrà da solo. La storia — ancora una volta — sta bussando alla porta dell’Europa.