Come può un Paese accogliere oggi, senza memoria, chi lo ha ferito ieri? È questa la domanda scomoda che pochi vogliono porsi in Italia, dove le cicatrici della storia sembrano essere state rimosse in nome di una modernità anestetizzata. Eppure, i fatti sono noti: tra il 1944 e il 1945, durante la campagna d’Italia, migliaia di donne — soprattutto in Ciociaria — furono violentate dalle truppe coloniali francesi, in particolare dai Goumiers, reparti marocchini al servizio della Francia.

Un episodio storico orribile, noto come le “marocchinate”, che ha segnato un’intera generazione e lasciato un trauma collettivo mai pienamente riconosciuto. Le testimonianze, i documenti, i procedimenti militari francesi parlano chiaro. Non si trattò di episodi isolati, ma di una vera e propria strategia di terrore post-bellica, in cui le popolazioni civili pagarono il prezzo di una liberazione imposta a colpi di violenza sessuale.

Oggi, a distanza di 80 anni, l’Italia è uno dei Paesi europei con la più alta presenza di migranti provenienti dal Maghreb, in particolare dal Marocco, Tunisia e Algeria. Una parte di essi è ben integrata, lavora onestamente, contribuisce alla società. Ma è lecito chiedersi: com’è possibile che nessuna riflessione storica accompagni questo dato demografico?

La questione non è etnica, ma morale e culturale. Le stesse origini geografiche e culturali di coloro che — anche se non in prima persona — parteciparono o beneficiarono di atti atroci, oggi tornano sul suolo italiano non come invasori, ma come ospiti. E l’Italia, nella sua profonda amnesia storica, ha rimosso il passato, accettando la presenza senza mai pretendere un confronto culturale, un riconoscimento, una memoria condivisa.

Chi oggi pronuncia la parola “reimmigrazione” — cioè il rimpatrio volontario o assistito verso i Paesi d’origine — spesso lo fa in termini brutali e senza fondamenta giuridiche. Ma dietro questa parola si nasconde una domanda non del tutto illegittima: se un popolo ha subito una violenza storica di massa da parte di un altro, è doveroso accogliere chi, oggi, viene da quello stesso contesto, senza alcuna rielaborazione collettiva di quanto accaduto?

Non si tratta di colpe collettive o di vendetta, ma di verità. Perché senza verità non esiste riconciliazione, e senza riconciliazione non può esserci integrazione autentica.

Il silenzio dell’Italia sulle “marocchinate” è il sintomo di una fragilità identitaria: quella di un Paese che ha subito ma non ha saputo né difendersi né raccontarsi. E che oggi, nel nome dell’accoglienza, rinuncia a interrogarsi su ciò che ha vissuto.

Forse è arrivato il tempo, non di chiudere le frontiere, ma di aprire gli archivi, i libri di storia, e le coscienze. Perché integrazione non significa dimenticanza, e giustizia non può essere costruita sull’oblio.

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