Dov’è la pistola fumante?

Se lo chiede in un editoriale la Bbc relativamente al ruolo di Huawei nel mercato delle telecomunicazioni statunitense

Huawei non è solo un gigante tecnologico cinese: è diventata l’epicentro simbolico e strategico della nuova Guerra Fredda digitale che contrappone la Cina alle potenze occidentali.

La sua espansione globale nelle reti 5G non è vista da Washington e Bruxelles come una semplice conquista commerciale, ma come una minaccia diretta al controllo delle infrastrutture di comunicazione critiche del XXI secolo. Perché? Perché chi controlla la rete non gestisce solo il flusso di dati: può anche esercitare sorveglianza, manipolare informazioni e attuare blocchi strategici. L’infrastruttura 5G è la spina dorsale dell’intelligenza artificiale, dell’Internet delle cose, dei sistemi di difesa e delle catene di approvvigionamento digitalizzate.

Permettere a un attore strettamente legato al Partito Comunista Cinese di accedere a questi sistemi significa, per l’Occidente, rinunciare a una parte cruciale della sovranità tecnologica. In questo contesto, la disputa su Huawei trascende il mercato: diventa un campo di battaglia invisibile, che ridefinisce chi controlla il futuro digitale mondiale.

Gli Stati Uniti accusano Huawei di agire come braccio armato del Partito Comunista Cinese (PCC), sottolineando che l’azienda, sebbene formalmente privata, mantiene una relazione stretta e opaca con le strutture statali e di intelligence del regime. Washington sostiene che le apparecchiature di telecomunicazione sviluppate da Huawei, in particolare quelle relative a reti, router e server 5G, contengano backdoor che potrebbero consentire a Pechino di accedere, manipolare o intercettare comunicazioni strategiche in altri Paesi. Questa possibilità rappresenta un grave rischio per la sicurezza nazionale, in particolare per i Paesi che condividono informazioni sensibili con gli Stati Uniti o che fanno parte di alleanze come la NATO o i “Five Eyes”.

Dal punto di vista degli Stati Uniti, consentire a Huawei di partecipare alle infrastrutture critiche di un Paese – ad esempio, le reti di telecomunicazioni 5G – equivale ad aprire una strada diretta allo spionaggio di massa e a potenziali sabotaggi. Inoltre, in un contesto in cui la guerra non si combatte più solo con carri armati e missili, ma con dati, algoritmi e infrastrutture digitali, avere Huawei come fornitore è considerato una vulnerabilità strategica.

Pertanto, Washington ha avviato un’intensa campagna diplomatica per convincere, e in alcuni casi esercitare pressioni, sui suoi alleati affinché escludano Huawei dai loro sviluppi tecnologici chiave.

La Cina, da parte sua, ha risposto con altrettanta veemenza.

Da Pechino, queste accuse vengono interpretate non come legittime preoccupazioni in materia di sicurezza, ma come un deliberato tentativo di sabotaggio economico, mascherato nel linguaggio della geopolitica digitale.

Secondo questa visione, gli Stati Uniti temono di perdere la loro egemonia tecnologica globale a favore di un concorrente emergente che, in soli due decenni, è riuscito a eguagliare, e persino a superare in alcuni settori, le principali aziende americane.

Per il governo cinese, il divieto di Huawei rappresenta una moderna forma di contenimento, una rivisitazione digitale dell’assedio della Guerra Fredda, ora canalizzato attraverso restrizioni commerciali e tecnologiche piuttosto che tramite blocchi militari.

La controversia si è intensificata nel 2018, quando il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha imposto severe sanzioni a Huawei, limitandone l’accesso a tecnologie chiave, in particolare ai semiconduttori di fascia alta. Queste sanzioni si sono estese ai fornitori globali, costringendo persino aziende non statunitensi, come la taiwanese TSMC e l’olandese ASML, a interrompere i legami con Huawei se volevano continuare a operare nel mercato nordamericano.

Il colpo è stato profondo: Huawei ha perso l’accesso a chip avanzati per i suoi smartphone, le reti 5G e i progetti di intelligenza artificiale. Questa misura ha segnato l’inizio delle cosiddette “guerre dei chip”, una feroce competizione per il controllo delle catene di fornitura e produzione dei semiconduttori, considerati il ​​”cervello” della tecnologia moderna.

L’accesso a questi chip all’avanguardia, necessari per le tecnologie di difesa, i veicoli autonomi, i big data, l’informatica quantistica e le armi intelligenti, è diventato uno dei fronti strategici più delicati del XXI secolo.

Controllarne la progettazione, la produzione e la distribuzione non è più solo una questione economica, ma di sopravvivenza geopolitica.

E in questo contesto, Huawei rappresenta più di una semplice azienda tecnologica: incarna una visione distinta del futuro digitale.

Quel futuro, come proposto dal modello cinese, si basa su un’internet più centralizzata, controllata dallo Stato, monitorata da sistemi di intelligenza artificiale e subordinata all’interesse nazionale.

È un modello che combina l’efficienza tecnologica con l’autoritarismo algoritmico: telecamere con riconoscimento facciale, punteggio sociale, censura automatizzata e sorveglianza predittiva.

Huawei, che sviluppa di tutto, dai router alle piattaforme di sorveglianza urbana, fa parte di questo ecosistema digitale progettato per massimizzare il controllo statale sui propri cittadini e proiettare questo modello ad altre nazioni interessate ad adottare soluzioni all-in-one per la gestione sia della sicurezza che delle infrastrutture.

Pertanto, il conflitto su Huawei non è meramente commerciale o tecnico.

È una lotta ideologica tra due modi di intendere il cyberspazio: da un lato, un’internet aperta e decentralizzata, guidata – almeno in teoria – dai principi democratici della libertà di espressione e della privacy; dall’altro, un’internet sovrana, monitorata e utilitaristica, in cui efficienza, ordine e controllo prevalgono sulle libertà individuali.

Con la messa al bando di Huawei, gli Stati Uniti non stanno solo cercando di limitare l’influenza tecnologica cinese. Cercano anche di contenere la diffusione di questo modello digitale autoritario, che, lungi dall’essere esclusivo della Cina, sta iniziando ad attrarre regimi illiberali o democrazie indebolite.

La posta in gioco, quindi, non è solo chi produce i dispositivi del futuro, ma chi scrive il codice morale del mondo digitale.

Questo scenario solleva una domanda fondamentale: di chi sono le infrastrutture possedute dal XXI secolo?

Le democrazie liberali, di fronte a questa domanda, si trovano di fronte a un paradosso: hanno privatizzato le infrastrutture digitali nelle mani di giganti come Google, Apple, Meta e Amazon, ma ora sono costrette a difenderle da aziende statali cinesi come Huawei.

Ciò rivela una profonda frattura nel modello di governance tecnologica globale: mentre la Cina avanza con un modello centralizzato di capitalismo statale, l’Occidente opera con aziende private che sono diventate potenze autonome.

In questo contesto, il concetto di sovranità tecnologica assume un’urgenza senza precedenti.

Non si tratta più solo di produrre microchip o di archiviare dati su server locali: si tratta di chi progetta le regole, controlla l’infrastruttura e definisce i valori incorporati nel codice che governa le nostre vite.

E in questo gioco, Huawei non è un’anomalia: è il sintomo di una nuova era in cui il potere non si misura più solo in armi o PIL, ma in reti, algoritmi e architetture invisibili.

Di Admin

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