LA VERA GIOCONDA È ANCORA IN ITALIA?
Un’indagine tra documenti d’archivio, analisi scientifiche e silenzi istituzionali
di Dott. Gilberto Di Benedetto, psicologo e psicoterapeuta. Esperto in operazioni PSY-OPS culturali e strategie dell’immaginario collettivo

L’ipotesi che la Gioconda esposta al Louvre non sia l’originale di Leonardo da Vinci non è una provocazione recente, né una speculazione priva di fondamento. A partire dagli anni ’60, e con maggiore insistenza negli ultimi due decenni, studiosi e storici dell’arte hanno raccolto indizi convergenti che aprono a uno scenario sorprendente ma plausibile: la vera Monna Lisa, quella uscita dal pennello di Leonardo tra il 1503 e il 1519, potrebbe trovarsi ancora in Italia.

Nel 2025, il ricercatore e saggista Silvano Vinceti ha rilanciato con forza questa tesi nel volume La Gioconda svelata, sostenendo, su base documentale e filologica, che l’opera oggi conservata al Louvre sia in realtà una copia realizzata da Gian Giacomo Caprotti, noto come Salai, allievo prediletto di Leonardo. A sostegno di questa ricostruzione esiste un documento chiave, spesso trascurato: un registro ufficiale custodito presso gli Archives Nationales de France, datato 1518, attesta il pagamento di 2.604 livres tournois da parte del re Francesco I non a Leonardo, bensì a Salai, per tre dipinti – uno dei quali descritto come una Joconde.

Questo elemento è centrale. Se fosse stata l’originale di Leonardo a essere consegnata alla corte francese, perché il pagamento fu effettuato a un suo allievo, e non al maestro stesso o ai suoi eredi legali (come Melzi, designato erede universale)? In ambito archivistico e notarile del Cinquecento, simili passaggi sono raramente casuali.

Va inoltre ricordato che Salai fu vicino a Leonardo per più di vent’anni, condividendone metodi, materiali e stile. Numerose sue opere sono oggi oggetto di riconsiderazione, proprio per l’estrema fedeltà formale al tratto del maestro. Alcuni storici, come Carlo Pedretti, lo hanno descritto come “ombra vivente” di Leonardo. Dunque, un’ipotesi tecnica è concreta: Salai avrebbe eseguito, su richiesta del re o di un intermediario, una replica fedelissima della Gioconda, destinata alla Francia.

Nel 2004, un’ulteriore svolta è arrivata da Pascal Cotte, ingegnere ottico e fondatore del laboratorio Lumière Technology di Parigi. Utilizzando uno scanner multispettrale ad altissima risoluzione, Cotte ha analizzato in profondità l’opera del Louvre, individuando al di sotto della superficie pittorica visibile un volto differente, con lineamenti più giovanili e meno definiti. Non solo: l’analisi ha rilevato anche tracce di lettere (una “S”, una “L”) e numeri (“72”), interpretati da alcuni studiosi come firme criptiche lasciate da Salai.

La somma di questi elementi porta a una domanda inevitabile: se l’opera al Louvre fosse effettivamente una copia, dove si trova l’originale?

Qui entra in gioco un altro evento storico cruciale: il celebre furto del 1911. Il quadro sparì dal Louvre il 21 agosto di quell’anno e fu ritrovato nel dicembre 1913 a Firenze, apparentemente grazie alla confessione del decoratore Vincenzo Peruggia. Tuttavia, l’intera vicenda è costellata di incongruenze. Lo stesso Vinceti, dopo aver consultato verbali dell’epoca, sostiene che l’autore materiale del furto fu in realtà un intermediario per conto di una rete commerciale internazionale, probabilmente guidata dai fratelli Lancellotti, nobili romani attivi nel mercato dell’arte. Più inquietante è il fatto che nessuna analisi scientifica o confronto oggettivo fu condotta tra l’opera rubata e quella restituita. La Gioconda “riconsegnata” nel 1913 fu accettata come autentica senza alcuna verifica diagnostica.

Perché nessuno parlò di confronti fotografici, chimici, stratigrafici? Perché si scelse il silenzio istituzionale? In termini di comunicazione pubblica, quella del 1913 rappresenta un perfetto esempio di psy-op culturale: si restituì all’opinione pubblica un’immagine rassicurante (“il capolavoro è tornato a casa”), evitando ogni approfondimento che potesse compromettere il prestigio di due Stati.

Oggi, a oltre un secolo di distanza, disponiamo degli strumenti tecnici e critici per riesaminare questa narrazione. È fondamentale avviare una campagna scientifica indipendente per confrontare, ad esempio, la Gioconda del Louvre con le due versioni conservate in Svizzera e Inghilterra, che molti ritengono più vicine all’originale leonardesco. Ma soprattutto, si dovrebbe cercare negli archivi notarili, religiosi e privati italiani la possibile traccia di una Gioconda rimasta nascosta, forse inaccessibile al mercato, ma custodita per secoli da una rete di famiglie o ordini che hanno inteso proteggerla dalla dispersione internazionale.

In conclusione, non siamo più nel campo delle ipotesi esoteriche o delle suggestioni romantiche. Siamo nel dominio della ricerca interdisciplinare, dove storia dell’arte, archivistica, scienza dei materiali, diplomazia culturale e psicologia collettiva convergono. Ammettere che la Gioconda autentica non sia quella del Louvre non diminuisce il valore dell’opera esposta a Parigi. Ma apre uno spazio nuovo alla verità storica, all’identità culturale italiana, e al dovere della trasparenza in campo patrimoniale.

Il tempo del silenzio è finito. È giunta l’ora di guardare con occhi nuovi l’opera più celebre del mondo. E di chiederci, con rigore e serietà: chi ci sta davvero sorridendo da quel dipinto?

Di Admin

Scopri di più da Giornalesera.com

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere