Nell’epoca dei social media il caos nasce non tanto dalla molteplicità dei messaggi, ma dalla loro ambiguità radicale. La differenza non sta mai nell’atto in sé, bensì nell’intenzione che lo anima. Un “cuore” lasciato sotto un’immagine, che cos’è? È approvazione? È amore? È un’illusione, un gesto automatico, privo di peso?
Un tempo il cuore era simbolo profondo, segno denso di vita e passione. Oggi, ridotto a icona digitale, vive di polisemie incontrollabili. Può incoraggiare, sedurre, consolare o semplicemente riempire il vuoto di un gesto senza pensiero. La sua forza simbolica non è scomparsa, ma si è dispersa in mille rivoli di senso.
Il paradosso della nostra epoca è che più comunichiamo, meno comprendiamo. Non perché ci manchino i segni, ma perché essi sono troppo fragili, troppo esili per sostenere la gravità del significato. I social hanno reso visibile ogni gesto, ma hanno oscurato la profondità che lo accompagna.
Decifrare un messaggio diventa allora un atto filosofico: distinguere il segno dall’intenzione, il simbolo dalla verità che lo abita. È un lavoro di interpretazione che richiede attenzione, ascolto, silenzio interiore. Perché se il cuore digitale è molteplice e ambiguo, il cuore umano resta ancora unico, indivisibile, irriducibile.
Forse la vera sfida del nostro tempo non è comunicare di più, ma abitare meglio il senso. Tornare a chiedersi: che cosa significa questo gesto? Da quale intenzione nasce? Non tutto ciò che appare è autentico, e non ogni cuore è amore. Ma ogni amore autentico è un cuore che non ha bisogno di icone.