De Ficchy Giovanni

Agosto ha visto un cambio di ritmo netto: nel Sud della Russia, dal litorale del Mar Nero fino al Volga, una sequenza quasi quotidiana di attacchi ha preso di mira impianti di raffinazione, depositi e nodi energetici.

Non è rumore di fondo: è una campagna coerente che colpisce la capacità russa di trasformare il greggio in carburante militare e civile, e di portarlo dove serve.

Nei giorni scorsi l’andamento si è ripetuto: nuove esplosioni e incendi in siti della filiera petrolifera nel quadrante meridionale, con interruzioni della lavorazione primaria e della logistica locale.

La dinamica è ormai familiare: saturazione delle difese con sciami di UAV, penetrazione a bassa quota, impatti su unità di distillazione e infrastrutture ausiliarie (energia, compressione, stoccaggio).

Anche quando l’impianto non “salta”, bastano danni selettivi per costringere a fermate prolungate, rallentare la portata o far lavorare a “isole” tecniche.

La strategia militare sottostante è lineare e spietata.

Primo: tagliare il collo di bottiglia energetico.

Un esercito ferrovia-centrico e con catene di fornitura lunghe vive di gasolio, benzina avio e kerosene.

Se la raffinazione locale vacilla, il carburante deve viaggiare di più, costa di più, arriva meno e più tardi.

Secondo: forzare la dispersione della difesa aerea.

Difendere costantemente decine di siti industriali obbliga a staccare batterie e radar dal fronte, aprendo “finestre” per altri tipi di attacchi (porti, ponti, snodi ferroviari, navi).

Terzo: colpire l’economia di guerra dove fa più male alla società civile.

Quando i prezzi del carburante oscillano e la distribuzione rallenta, il malcontento locale non resta confinato ai recinti militari.

Il quadro che emerge dopo un mese è quello di una corrosione cumulativa.

Ogni giorno perso di produzione fa scendere le scorte; ogni convoglio che devia o ritarda scarica pressione su strada e rotaia; ogni ridislocazione SAM per proteggere una colonna di fumo lascia un settore scoperto.

Non è “un grande evento” che decide tutto: è il logorio che, sommato, pesa quanto un ponte saltato.

Guardando avanti, il Sud resterà il centro di gravità di questa campagna: impianti vulnerabili, corridoi logistici obbligati, mare e steppe che non offrono molte alternative.

Se il ritmo degli attacchi reggerà, vedremo finestre operative più ampie sul Mar Nero e sulla costa d’Azov, più difficoltà nel rifornire l’aviazione tattica e un progressivo drenaggio di difese dal fronte.

È una partita di pazienza strategica: meno carburante disponibile, più costi di protezione, più attrito sul sistema.

E quando un sistema vive d’inerzia, l’inerzia finisce sempre, prima o poi, nel momento meno comodo.

La Russia sta vivendo la più grave crisi energetica  degli ultimi anni: una parte significativa della sua capacità di raffinazione è stata messa fuori gioco da una combinazione di attacchi ucraini e manutenzioni programmate.

Gli impianti di Novokuibyševsk, Saratov, Volgograd, Syzran e Kuibyševsk sono fermi, mentre la raffineria di Ryazan lavora a capacità ridotta e il terminal di Novatek a Ust-Luga ha perso due terzi della produzione.

Afipsky, già colpita da droni, resta un punto interrogativo ma è chiaro che la fascia meridionale è particolarmente vulnerabile.

Secondo le stime indipendenti, fino al 23% della capacità primaria russa è offline: circa il 6% per lavori programmati e ben il 17% per attacchi diretti.

È vero che gli impianti non erano caricati al 100% e che Mosca può ridurre il danno reale con una maggiore quota di greggio diretto all’export, ma la perdita effettiva resta tra il 5 e il 10% della produzione.

Un dato che, su scala nazionale, sembra gestibile ma che in periferia sta già creando voragini.

I territori più colpiti sono la Crimea occupata, il sud della Russia, le regioni del Caucaso e tutto l’Estremo Oriente: Primor’e, Khabarovsk, le Curili, l’Oblast Ebraico e lo stesso Stavropol.

Qui i distributori lavorano a singhiozzo, la benzina viene razionata, spesso venduta solo a enti pubblici o con coupon, e in alcuni distretti è stata completamente sospesa.

Intanto Mosca e le grandi città vengono protette dirottando i rifornimenti: ciò significa che il Cremlino ha scelto di sacrificare le periferie pur di tenere piena la capitale e i nodi militari.

In termini strategici questo quadro conferma che la guerra logorante degli strike ucraini sulle raffinerie e sulle ferrovie sta aprendo una falla strutturale.

Ogni treno carburante distrutto equivale a decine di camion in più sulle strade, con consumi e vulnerabilità moltiplicati.

Ogni raffineria ferma obbliga a spostare greggio non lavorato verso l’Asia a sconti sempre più pesanti, riducendo il cash flow fiscale che Mosca usa per finanziare la guerra.

La verità è che la Russia non ha più una rete di prodotti omogenea: ha una capitale che deve rimanere rifornita e un fronte che reclama carburante, ma sempre più regioni periferiche senza benzina.

Questa è la definizione stessa di un’economia di guerra in usura: sopravvive, ma si sfilaccia, e ogni giorno in più di attacchi porta il sistema un passo più vicino al collasso intermittente.

Note a piè di pagina

https://www.reuters.com/business/energy/russian-oil-refineries-terminals-burn-ukraine-hits-putins-war-economy-2025-08-25

Di Admin

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