Lo strike ucraino contro la raffineria di Ilsky
nel Krasnodar Krai, vale aritmeticamente un 2,5% circa della capacità di raffinazione russa, pari a 150–170 mila barili al giorno. Se si prende alla lettera la stima di Kyiv, che già prima del raid parlava di oltre il 25% della capacità russa fuori uso, si potrebbe dire che il tetto teorico sale verso il 27–28%.
Ma questo calcolo è ingannevole, perché nel mondo reale i fermi non sono mai totali o lineari: alcune unità restano parzialmente attive, altre rientrano in produzione mentre nuove vengono colpite, e la perdita di capacità non coincide automaticamente con la perdita di throughput, dato che Mosca può ridistribuire greggio verso l’export e spremere altri impianti. È più credibile collocare l’effetto netto in un range oscillante tra il 22 e il 27%, quindi con margini mobili più che con un livello stabile.

Il punto, però, non è solo nella percentuale.
Ilsky fa parte di un cluster delicatissimo
che comprende Afipsky e Slavyansk, collegato sia al terminale di Novorossiysk sia agli oleodotti che alimentano la Crimea e il Mar d’Azov. Un fermo in questa zona si traduce immediatamente in convogli più lunghi di carburante diretti verso la Crimea e il fronte meridionale, convogli che diventano bersagli perfetti per droni FPV e artiglieria.
Costringe inoltre Mosca a ridislocare difese aeree per proteggere questi nodi, aprendo inevitabilmente varchi in altri settori del Paese: ogni batteria di S-400 spostata a Krasnodar è una batteria in meno a copertura di Mosca, Belgorod o San Pietroburgo.
A cascata, si crea un effetto pressione sul mercato interno: più priorità alle forniture domestiche, restrizioni all’export, oscillazioni su benzina e diesel che il Cremlino non può permettersi in campagna elettorale permanente.
Se gli attacchi si ripetono e gli incendi diventano cronici, lo scenario si complica con una tempistica che pesa sul fronte. Nel breve, tra due e quattro settimane, si accentua il derating locale e la logistica nel sud si fa più fragile, con la Crimea e l’Azov esposti a strozzature.
A distanza di un mese o due, i flussi dal Mar Nero si riducono di qualche punto, la ferrovia si congestiona e la Russia è costretta a tamponare con rifornimenti più lunghi da Belarus o dalle rotte artiche.
Se poi i re-strike mantengono fuori gioco Ilsky e il suo cluster oltre le otto settimane, la quota di capacità offline stabilmente sopra il 20% smette di essere un problema episodico e diventa un handicap strutturale, che incide tanto sull’economia quanto sulla tenuta militare.
Il colpo a Ilsky, quindi, non è semplicemente un “più 2,5%” sulla lavagna.
È un attacco mirato al tallone d’Achille geografico della rete prodotti russa.
A livello nazionale Mosca può ancora attutire, ma nel quadrante Crimea–Donbass l’impatto è immediato e visibile: meno elasticità, più costi, più rischio.
In una guerra logorante, sono questi i dettagli a trasformarsi in punti di rottura.
Note a piè di pagina
Ukrainian drones reportedly strike Russia’s Ilsky Oil Refinery in Krasnodar Krai, media reports