De Ficchy Giovanni

Nel bazar la gente conta le monete, i cartellini cambiano prima ancora che scenda il sole.
Khamenei ordina al governo di far sì che “circa dieci beni essenziali” si possano comprare senza paura di rincari e che le scorte statali siano “affidabili”.
Non è poesia patriottica: è la spia di un’inflazione alta e di una logistica fragile.
I numeri ufficiali lo inchiodano lì dove fa male: inflazione “punto-punto” al 42,4% in agosto, media annua intorno al 36%, alimentari che in un solo mese corrono di quasi il 4%.
Con quei prezzi, calmierare diventa un verbo d’emergenza, non un programma.
La crisi in Iran sta assumendo i tratti della spirale innescatasi nel decennio scorso in Venezuela e che portò all’iperinflazione.

Il cambio è il tamburo che detta il passo: nel mercato libero il dollaro oscilla nell’area di 1,02–1,06 milioni di rial (≈102–106 mila toman). Una valuta così stanca trasforma ogni container in una tassa, ogni importazione in febbre.
Tenendo la rotta attuale, la soglia “rotonda” di 1,2 milioni per dollaro è credibile nel 2026 inoltrato; ma se scatta lo shock sanzioni, il salto può arrivare molto prima.
Questo Teheran lo sa, e non a caso il ministro degli Esteri Araghchi ha messo nero su bianco la proposta: monitoraggio stringente e limiti all’arricchimento in cambio della revoca delle sanzioni.
È un messaggio alla stanza europea dove l’E3 ha già avviato il meccanismo di snapback: fermatevi e avrete cooperazione; andate avanti e avrete un cambio che brucia e una regione che s’impenna.
La diplomazia, qui, non è un salotto: è un estintore vicino al fuoco.
Riassunto

Snapback: il ritorno del boia Ottobre 2025, l’Occidente gira la chiave delle sanzioni ONU.
Il rial crolla del 20% in una notte: 1,2 milioni bruciati come carta straccia.
Supermercati che raddoppiano i prezzi, pane e carburante che diventano miccia di rabbia.
Khamenei parla di carestia di “scorte affidabili”: tradotto, il regime sa che la polveriera sociale è pronta a esplodere
L’Iran diventa un’economia a contrabbando, pagata in yuan e oro, con banche fantasma e petrolio svenduto ai cinesi. Il governo sopravvive?
Sì, con manganelli e IRGC.
Ma è sopravvivenza da bunker, non da palazzo.
Mini-deal: la boccata d’ossigeno Stessa scena, ma in controluce: ottobre porta un -7% sul cambio, il dollaro scende, i bazar respirano.
Gli USA concedono margini sul petrolio, gli europei sospendono la mannaia.
Pezeshkian si prende il ruolo di “salvatore tecnico”: prezzi più stabili, import di grano e medicine più fluido.
Il regime esulta: “abbiamo resistito e trattato”.
È fumo, ma funziona.
Non c’è crollo del governo, c’è anzi più legittimità interna.
I missili restano intoccati, l’impero regionale resta intatto.
Dall’altra parte, Mosca cammina con la tanica quasi vuota.
L’estate ha picchiato duro: gli sciami di droni ucraini hanno messo fuori gioco, a intermittenza, circa il 17% della capacità di raffinazione—più di un milione di barili al giorno—e il Cremlino ha dovuto giocarsi la carta più scomoda: strangolare l’export di benzina per tenere aperti i distributori di casa.
Nei porti si vedono tagli e rimbalzi, i carichi di diesel e gasolio scendono, le riparazioni si allungano.
La macchina energetica russa non si ferma, ma scricchiola: i volumi si spostano, i margini fiscali si assottigliano, e ogni incendio spento in un impianto è un promemoria di quanto sia costoso proteggere il “cuore” del sistema.
Sul fronte dei conti pubblici, la Russia è arrivata al target di deficit annuo già a metà anno.
I dati ufficiali sono sempre manipolati per creare una narrazione fuorviante.
Ad esempio, un report pubblicato dallo Stockholm Institute of Transition Economics (Site), realizzato in autunno e aggiornato nei giorni scorsi, evidenzia un enorme aumento delle spese militari fuori bilancio, con costi che vanno molto oltre i numeri riportati nelle statistiche ufficiali.
Il calo dei prezzi del petrolio sta causando alla Russia problemi di ogni tipo.
La dipendenza di Mosca dalle esportazioni di greggio è una fragilità ormai nota e la diminuzione dei prezzi del petrolio degli ultimi mesi influisce anche sull’economia reale: le casse della Russia ne stanno già risentendo, a marzo le entrate fiscali derivanti da petrolio e gas sono diminuite del diciassette per cento su base annua.
Inoltre, il 22 aprile Reuters ha riportato, citando documenti ufficiali russi, che il governo prevede un forte rallentamento delle vendite di idrocarburi quest’anno – un segnale dell’efficacia delle sanzioni imposte dall’Unione europea e dal G7.
In pubblico, a Vladivostok, Putin dice che non è un problema, che il debito è basso e c’è spazio per allargare il disavanzo; intanto i tecnici fanno i conti con crescita spompata, tassi alti e spesa militare che non molla.
Se il 2025 si chiude così, il 2026 chiederà una scelta: più tasse, più tagli, o più debito. Nessuna delle tre opzioni è indolore quando i prezzi del carburante traballano e l’industria gira a singhiozzo.
Iran e Russia entrano quindi nello stesso corridoio, ma da porte diverse.
Teheran combatte contro il carrello della spesa e contro un cambio che può saltare al primo schiocco di dita di Bruxelles; Mosca combatte con i rifornimenti—benzina, diesel, pezzi di ricambio—e con un bilancio che corre più della crescita.
Se il petrolio resta blando, se le riparazioni russe non chiudono il buco e se il “mini-deal” iraniano non arriva, il 2026 non promette il collasso fulmineo, ma un fastidio continuo che logora: scatti di cambio sopra 1,2 milioni per dollaro a Teheran, code ai distributori e stop-and-go sulle esportazioni a Mosca, e governi costretti a spiegare alla propria gente perché la vita è diventata più cara, più incerta, più lenta. In linguaggio semplice: due nemici, un anno cattivo; e una realtà che presenta il conto con interessi composti.
Shock petrolio: Brent a 50 $ Se il Brent scivola e resta nell’area dei 50 $ per un paio di trimestri, la pressione su Teheran e Mosca cambia qualità. Con uno sconto Urals stabile a 12–15 $, la Russia monetizza 35–38 $ a barile: le entrate energetiche si comprimono di un ulteriore 25–40% rispetto allo scenario base, il deficit federale tende a superare il 4–5% del PIL, l’emissione di OFZ deve salire in forzatura e la parte liquida del Fondo del Benessere scende più in fretta.
La “shadow fleet” diventa un costo fisso più pesante (noli, assicurazioni non-G7), gli sconti richiesti da India e Cina si allargano, e ogni giorno di fermo in raffineria pesa il doppio perché i margini fiscali si assottigliano.
Sul cambio, la probabilità di uno scivolamento sopra 120 RUB/USD sul parallelo aumenta e l’inflazione alimentare resta appiccicosa, perché i calmieri interni sui carburanti generano carenze e rimbalzi a catena sulla logistica.
Per l’Iran, 50 $ il barile erode la cassa in valuta proprio mentre l’inflazione corre e il rial sta in apnea.
Anche con un mini-deal che allenti le sanzioni, l’aumento di volumi difficilmente compensa un prezzo così basso: entrano più barili, ma valgono meno.
Senza mini-deal (scenario snapback), la combinazione di prezzo debole e restrizioni finanziarie spinge il cambio più in alto (oltre 1,2 M rial/USD con scatti bruschi), costringe a razionare davvero quei “dieci beni essenziali” e trasforma i calmieri in code.
In ambedue i casi, gli import di grano, farmaci e componenti diventano più cari in termini reali e l’inflazione “punto-punto” rischia di riaccelerare, con la spesa pubblica tirata tra sussidi e ordine pubblico.
Lato OPEC+, l’istinto sarebbe tagliare; ma Mosca ha poco spazio di manovra (spesa di guerra) e l’adesione selettiva di alcuni membri indebolisce l’effetto annuncio.
Se i tagli non ricuciono il Brent sopra 60–65 $, l’“effetto forbice” resta aperto: meno prezzo unitario, più costo di trasporto/assicurazione, più sconti ai buyer asiatici.
Il risultato operativo è semplice: più stop-and-go su esportazioni e più intermittenze domestiche (raffinerie e pompe), con il rischio che i calmieri si traducano in carenze visibili proprio nelle regioni periferiche.
Traduzione strategica: a 50 $ il petrolio, la diplomazia diventa ancora più cara per Teheran e il tempo più corto per Mosca.
Il 2026 smette di essere “solo” un anno duro e diventa un test di sostenibilità: o rientrano prezzo e flussi, o si pagano gli interessi composti dell’usura—sul bilancio, sul cambio e sulla pazienza sociale
Fonti per l’Iran: inflazione e prezzi alimentari – “Inflation in Iran surpassed 42 % in August, according to regime Statistics Center”, Iran Focus, riporta l’inflazione “punto-punto” al 42,4 %, l’inflazione media annua al 36,3 %, e +3,9 % per i generi alimentari in agosto Iran Focus. – “Iran Reports 1 % Increase in Annual Inflation Rate in August”, IMNA, dati ufficiali: 2,9 % mese su mese, inflazione annuale 36,3 %, punto-punto 42,4 % PressTVIMNA. – “Economic performance of the Islamic Republic of Iran”, Wikipedia (aggiornamento recente): IMF prevede inflazione oltre 43 %, storia dell’inflazione, contesti sanzionatori Wikipedia.
Fonti per la Russia: capacità di raffinazione compromessa e impatti – “Russia’s idle oil refining capacity record high after Ukrainian drone attacks”, Reuters, raffinerie inattive equivalenti al 17 % della capacità (≈1,2 milioni bpd) Reuters. – “Russian oil refineries, terminals burn as Ukraine hits Putin’s war economy”, Reuters, conferma l’impatto del 17 % e descrive le zone coinvolte e il contesto strategico Reuters. – “Russian seaborne diesel exports fell in August, data shows”, Reuters, conferma il fermo di circa 17 % della capacità di raffinazione (1,1 milioni bpd) dovuto agli attacchi ucraini Reuters. – “Frustrated Russians grapple with fuel crisis as Ukraine attacks oil refineries”, The Guardian, racconta la crisi della benzina in Russia, prezzi schizzati e regioni colpite (Estremo Oriente, Crimea…), e stima ancora ~17 % di capacità persa The Guardian. – “Russia raises August oil export plan after drone strikes disrupt refineries”, Reuters, attacchi ucraini hanno colpito 10 raffinerie, riduzione capacità pari al 17 % (1,1 milioni bpd); malgrado ciò Mosca ha aumentato le esportazioni di greggio a ~2 milioni bpd Reuters.