De Ficchy Giovanni

Quando Maurizio Landini si esprime, sembra che il suo intento sia quello di mescolare le carte in tavola con maestria, dipingendo un quadro in cui il sindacato CGIL non è più l’avvocato dei diritti dei lavoratori, ma piuttosto un palcoscenico per le sue personali visioni politiche.
Nella recente apparizione a Omnibus su La7, il segretario generale ha deciso di paragonare lo sciopero del 1943 contro il regime fascista con la recente proclamazione di uno stop per Gaza.
Un accostamento che fa accapponare la pelle, se si considera che nel 1943 i lavoratori italiani erano sotto attacco di una dittatura sanguinaria, mentre oggi ci troviamo a discutere di una guerra complessa che coinvolge dinamiche internazionali e geopolitiche ben più intricate.
La prima domanda che sorge spontanea è: cosa c’entra un conflitto in Medio Oriente con i diritti dei metalmeccanici italiani? Seppur ispirato da nobili ideali, il sillogismo di Landini è fuorviante.
«Senza pace non esistono i diritti del lavoro», afferma, quasi fosse un mantra salvifico.

Ma il suo ragionamento cade in picchiata quando si realizza che i diritti dei lavoratori dipendono da contratti equi, relazioni industriali solide e riforme interne, piuttosto che dall’interruzione delle ostilità in una regione distante migliaia di chilometri.
Richiamare Gaza come giustificazione per un fermo generale è un’operazione che sfiora la strumentalizzazione e il cinismo.
Andando oltre, Landini invoca anche le denunce dell’Onu, parlando di “genocidio” in un modo che farebbe invidia a ogni retore politico.
Ma, ahimè, il panorama dell’Onu è ben più complesso: vi convivono stati democratici e dittature, dove il termine “genocidio” viene spesso agitato come clava per colpire nemici politici piuttosto che come un riconoscimento di un reale crimine contro l’umanità.
La giustizia internazionale non si misura con le parole pronunciate sopra un palco televisivo, ma nelle aule dei tribunali competenti, dove la verità spesso viene sotterrata da interessi geopolitici
Un sindacalista, per definizione, dovrebbe essere il baluardo della tutela dei diritti dei lavoratori, non il megafono delle risoluzioni più faziose
Eppure, assistiamo a metamorfosi inquietanti.
Figure che dovrebbero incarnare la lotta per l’equità si trasformano in burattini, mossi da fili invisibili che conducono a centri di potere lontani dagli interessi che dovrebbero proteggere.
La retorica infuocata, un tempo strumento di denuncia, diviene un’arma per avallare decisioni prese altrove, incuranti delle conseguenze sulla carne viva di chi lavora.
Il diritto, da scudo per i più deboli, si piega alle logiche del mercato, alle ambizioni di chi vede nel lavoro solo un costo da comprimere, una variabile da manipolare per massimizzare il profitto.
E così, la giustizia diventa un’illusione, un miraggio che si allontana ad ogni passo, lasciando dietro di sé solo macerie e disillusione.
È quasi tragicomico assistere a questa metamorfosi.
I veri diritti dei lavoratori non si conquistano gridando slogan generici contro guerre lontane, ma lottando per salari più equi, per la sicurezza sul lavoro, per condizioni dignitose.
La crisi del lavoro in Italia non può affondare le proprie radici in quaderni di appunti sul Medio Oriente, ma deve trovare risposta alle sue problematiche interne: disoccupazione giovanile, precarietà, mancanza di investimenti.
In questo contesto, il richiamo alla pace diventa quindi un miraggio, un’ideale irraggiungibile se non si affrontano le cause strutturali delle ingiustizie lavorative.
Invece di guadagnare consensi tra la sua base di lavoratori, Landini rischia di apparire come un leader più preoccupato a coltivare il proprio ego politico piuttosto che a garantire diritti concreti ai suoi iscritti.
Landini rivendica apertamente lo sciopero come «politico».
È la confessione che mancava: non si tratta di salari, non si tratta di contratti, non si tratta di fabbriche.
Si tratta di usare i lavoratori come truppe della marcia ideologica.
E mentre l’esecutivo si adopera a risolvere l’occupazione, la precarietà e il carovita come problemi concreti, la Cgil preferisce ergersi a paladina di Gaza.
È opportuno prendere le distanze da certi accostamenti imprudenti e dalla retorica che tenta di mascherare le reali necessità dei lavoratori.
La questione palestinese è complessa e delicata e non può essere usata come palcoscenico per dimostrare un finto attivismo.
I diritti dei lavoratori meritano rispetto e serietà, non debbono essere impiegati come pedine in un gioco politico che ha ben poco a che vedere con le loro vite quotidiane.
Così, mentre il mondo continua la sua marcia, guidato da tumultuose onde di cambiamento, ci piacerebbe vedere figure sindacali come Landini recuperare un po’ di senso pratico e tornare a focalizzarsi su ciò che realmente importa: il lavoro, i diritti, il miglioramento delle condizioni di vita per tutti.
Basta con le liturgie ideologiche che sanno di muffa, con le barricate verbali che non portano da nessuna parte. Urge un ritorno alla concretezza, alla trattativa seria e costruttiva, all’analisi pragmatica dei problemi.
I lavoratori non hanno bisogno di eroi né di tribuni, ma di rappresentanti capaci di comprendere le loro esigenze reali e di tradurle in risultati tangibili.
Serve un sindacato che sappia dialogare con le imprese, senza pregiudizi né preconcetti, un sindacato che sappia cogliere le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dai nuovi modelli produttivi, un sindacato che sappia difendere i posti di lavoro esistenti e crearne di nuovi.
Un sindacato, insomma, che sia parte attiva del cambiamento, non un freno al progresso.
Ma forse, per alcuni, il fascino della politica è semplicemente troppo avvincente per rinunciarvi.