
Il Primo Passo del Piano Globale di Pace: Un’Ironica Illusione
In un mondo dove le parole sembrano essere più importanti delle azioni, il piano del Presidente Donald Trump per portare la pace in Medio Oriente si presenta come un elaborato mazzo di promesse. Il primo passo?
Trasformare Gaza in una zona deradicalizzata, libera dal terrorismo.
È un obiettivo nobile, senza dubbio.
Ma, mi permetta di dire, è anche un compito arduo, se non impossibile.
La vera domanda è: chi ha mai sentito parlare di un popolo che decide di abbandonare la propria identità e di riscrivere la propria storia? Deradicalizzare Gaza vorrebbe dire chiedere a quel popolo di trascendere secoli di miti, tradizioni e la sanguinosa sete di vendetta contro il vicino ebreo. Ah, ma i giornalisti e i politici non sono mai stati noti per la loro acutezza storica.
È così facile etichettare il conflitto arabo-israeliano come “arcaico”, dimenticando di menzionare che Israele è in pace con la maggior parte del mondo arabo—con gli egiziani, i giordani e i ricchi stati del Golfo.
Ma si sa, fa notizia solo il caos.
Il vero nemico di Israele?
Non certo i palestinesi, ma il regime degli Ayatollah, che ha motivo di temere qualsiasi accordo di pace che svuoti il campo di battaglia per il potere.
La tensione del 7 ottobre scorso?
Semplice tentativo dei palestinesi e iraniani di sabotare l’ingresso dei sauditi negli Accordi di Abramo.
Chi avrebbe mai pensato che la geopolitica fosse così… complessa?
E qui entriamo nel cuore della questione: il conflitto palestinese.
Gli attori coinvolti non si capacitano di un fatto molto semplice: la loro narrativa è relativamente moderna.
In tempi passati, Gaza era sotto il controllo egiziano, e nessuno si sognava di chiamarla “occupata”.
La ribellione contro gli egiziani?
Un concetto affascinante da immaginare, ma completamente assente nella realtà.
Gaza divenne semplicemente una base di lancio per i terroristi Fedayn mentre il resto del mondo si chiedeva se si dovesse preoccuparsi più del Cairo o della situazione a Tel Aviv.
Si sostiene che gli aiuti internazionali siano stati riversati sui palestinesi perché essi avrebbero “scelto il nemico giusto”: gli ebrei.
Fermi un attimo.
Quelli che lottano per la loro autodeterminazione, come i drusi e gli yazidi, sono stati completamente dimenticati, e i Rohingya?
Semplicemente invisibili.
Eppure, se solo i Rohingya iniziassero a pugnalare gli ebrei nelle sinagoghe, chissà, forse la Francia e la Gran Bretagna li riconoscerebbero immediatamente.
La violenza non è mai stata un valido argomento a favore della creazione di uno Stato.
Eppure, paradossalmente, l’Occidente continua a premiare i palestinesi alimentando il loro radicalismo.
Il pensiero occidentale, ingabbiato nella sua ideologia, crede che la pace in Medio Oriente possa dipendere dalla creazione di uno Stato palestinese.
Una follia.
È, al contrario, proprio questa richiesta di una “Palestina” araba che ha spinto i palestinesi a una guerra incessante e a sofferenze autoinflitte.
La pace non è subordinata alla creazione di un nuovo Stato, bensì all’accettazione da parte dei palestinesi dell’esistenza permanente di Israele. Devono rendersi conto che il “diritto al ritorno” è solo un sogno irrealizzabile.
E qui si cela il problema: i palestinesi non aspirano a uno Stato accanto a quello israeliano; desiderano crearne uno al posto di Israele.
Un’ambizione piuttosto ambiziosa, non trova?
Un po’ come voler mangiare terra.
In questo contesto, la proposta di pace di Trump si trasforma in un grottesco balletto di illusioni. “Deradicalizzare Gaza”?
Certo, perché è così facile far evolvere una cultura e un’identità in pochi passi.
Forse, per rendere il tutto più semplice, basterebbe invocare un paio di incantesimi o una bacchetta magica.
E quindi, mentre il mondo osserva questi sforzi in buona fede, ci si potrebbe chiedere: quanto tempo ci vorrà prima che la realtà torni a colpire duramente? Perché, alla fine, le belle parole spesso si infrangono contro i muri di una storia ben più complessa e stratificata, dove le identità non sono semplici tessuti da rammendare, ma intricate trame di esperienze, speranze e, ahimè, odi.
Chissà se tra vent’anni parleremo ancora del “primo passo” verso la pace.
O forse, avremo assistito a un altro ciclo di violenza, di negazioni e di illusioni, sempre nell’ombra di una regione pronta a esplodere.
In fin dei conti, la pace in Medio Oriente richiede qualcosa di più delle buone intenzioni e di un’agenda politica.
Richiede, prima di tutto, una sincerità reciproca che sembra impossibile da raggiungere.
Ma, d’altra parte, nel bel mezzo di questo groviglio di parole e ideali, perché non continuare a sognare?