
Ah, il Bope.
Le famose forze speciali di polizia brasiliane pronte a scendere in campo contro la malavita come se fossero gli eroi di un videogioco.
Un’azione rapida, letale e, soprattutto, indifferente a qualsiasi criterio di giustizia.
E nonostante il loro motto “Chiunque in quelle fogne è complice”, i risultati parlano chiaro: 138 morti (ma secondo le stime più realistiche, sono molti di più) per una “bonifica” di Rio de Janeiro, dove il gioco sembra essere “ti uccido prima di chiederti chi sei”.
Il tutto nel nome della lotta al Comando Vermelho, una mafia che sembra più un personaggio di una soap opera che una vera organizzazione criminale, quasi fosse il villain di casa Marvel, ma senza supereroi che possano fare la differenza.

E così, i membri del Bope, affiancati dalle polizie locali, si sono armati fino ai denti e hanno fatto ciò che sanno fare meglio: sparare.
Non si sono chiesti chi fosse un criminale e chi un innocente, perché in fondo, è tutta una questione di statistica e collateral damage.
Chi scappa?
Colpevole.
Chi ha un’arma?
Colpevole.
Chi vive vicino ai depositi di cocaina?
Colpevole.
Risultato finale?
Un bel pacchetto di cadaveri, arresti e armi sequestrate, il pacchetto perfetto per un servizio serale nei telegiornali.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha espresso “orrore” e ha sollecitato “indagini rapide” sull’operazione.
Human Rights Watch ha definito l’intervento “una tragedia enorme” e ha chiesto inchieste su ogni decesso.
Ma torniamo a Roberto Saviano, il nostro “guru della lotta al crimine”.

Saviano ha sempre messo in discussione l’efficacia delle operazioni di polizia, e il suo ragionamento è tanto semplice quanto inquietante: ogni violenza chiamata “giusta” non fa altro che alimentare un circolo vizioso.
Certo, lui scrive libri e fa conferenze, mentre il Bope spara proiettili.
Ma chi ha ragione?
La verità è che mentre il Bope si sente un eroe, Saviano lo vede come un attore in un copione già scritto, dove il dramma si ripete e il finale è scontato.
E qui sorge la domanda: cosa ci rimane oltre al macello?
Forse fiction sui boss carismatici?
Sì, certo, perché persone come Scarface e don Vito Corleone sono molto più semplici da digerire rispetto alla complessità del crimine reale.
Il pubblico ama gli anti-eroi, quelli che spaccano tutto senza badare a spese.
E mentre il Bope si prepara per il prossimo round di “spariamo a caso”, noi possiamo comodamente sederci davanti alla TV con il nostro popcorn e goderci le avventure di Tony Montana.
D’altra parte, a chi interessano le statistiche?

Perché perdere tempo a studiare il fenomeno della criminalità organizzata e le sue radici sociali quando possiamo semplicemente puntare il dito e far saltare in aria un paio di quartieri?
Ma poi, a chi importerebbe dei perché?
Delle storie di miseria, di mancanza di opportunità, di un sistema che ti spinge in un angolo e ti dice che quella è l’unica via d’uscita?
No, è molto più comodo credere che siano tutti cattivi nati, che la criminalità sia una malattia genetica. Così non ci si deve sforzare di capire, di cambiare le cose, di sporcarsi le mani con la realtà.
Molto meglio un bel bombardamento e via, problema risolto.
Almeno fino alla prossima generazione di disperati, pronti a riempire il vuoto lasciato dai loro predecessori.

Ma tanto, chi se ne frega?
L’importante è avere la coscienza pulita, convinti di aver fatto la cosa giusta, di aver “ripulito” la società. Peccato che la sporcizia, quella vera, sia molto più profonda e non si lava via con qualche esplosione. Anzi, spesso la si fa solo espandere.
E così, il fascino del “fare giustizia” diventa un cumulo di cadaveri, trasformando una lotta legittima in una guerra insensata.
Ma chi se ne frega, giusto?
È solo un altro giorno a Rio, dove il sole brilla e le pallottole volano come se fosse un festival.
Il sarcasmo, però, non deve oscurare la realtà.
La battaglia contro il crimine non è semplice.

Non esistono soluzioni facili, e le operazioni come quella del Bope possono sembrare impattanti sul momento, ma i veri cambiamenti richiedono pazienza e comprensione.
È vero, Saviano ha ragione: tanti morti non portano a nulla se non a una perpetua spirale di violenza.
Ma provare a cambiare le cose costruendo comunità, educando i giovani e offrendo alternative reali è un compito arduo, che richiede tempo, sforzo e, soprattutto, un cambio di mentalità.
Così, mentre il Bope continua la sua crociata, noi possiamo riflettere: vogliamo vivere in un mondo dove il potere della narrazione è più forte della verità?
Dove la nostra comprensione della giustizia è distorta dalla finzione?
O possiamo cominciare a chiederci se sia possibile avere un approccio più umano e meno punitivo verso il problema della criminalità?
La questione resta aperta, e forse sarebbe il caso di non lasciar decidere sempre ai protagonisti dell’azione il destino delle nostre città.
Quindi, che dire?
Finiamo davanti alla TV, oppure ci prendiamo un momento per riflettere su ciò che realmente significa combattere il crimine?
La scelta è nostra.
Ricordiamoci, però, che quando si spara, i corpi non sono solo numeri, ma vite spezzate che raccontano storie che mai conosceremo.
E la verità è che, indipendentemente da quanto possa sembrare allettante l’azione immediata, il vero cambiamento richiede qualcosa di molto più complesso e profondo di un semplice grilletto.
La provocazione di Saviano è chiara: la lotta al crimine non può ridursi a un superficiale gesto di forza. Dobbiamo andare oltre.
Ma chi ha tempo per queste sottigliezze?
Meglio un film d’azione in prima serata.
