
Quando si parla della giustizia in Italia, sembrerebbe che il primo, indiscusso protagonista del dibattito sia un’idea tanto radicata quanto errata: quella che i processi siano eternamente bloccati per colpa di una mancanza di personale, mezzi e fondi.
Ah, la solita litania!
Come una zanzara fastidiosa che ronzante ci ricorda il caldo dell’estate.
Certo, avremo anche qualche magistrato che cammina su un filo teso come un acrobata, ma la verità è ben più profonda e triste.
La vera causa della lungaggine processuale non è un semplice difetto burocratico, ma un dramma ben più complesso: i processi sono mal condotti e le loro decisioni risultano, nella maggior parte dei casi, perplesse.
Cominciamo col primo punto: la cattiva conduzione dei processi. La procedura giuridica assomiglia a un labirinto di regole e formalismi talmente intricati da far impallidire anche il più esperto degli architetti. Ogni riforma, compresa l’ultima, a dir poco sconcertante, operata da Marta Cartabia, sembra allontanarci ulteriormente dalla concretezza, quasi fosse un’opera astratta da realizzare su carta.
E chi se ne frega delle vite coinvolte?
Il risultato?

Una giustizia che stride con la realtà, dove il senso del diritto è coperto da un velo di polvere, lasciando spazio a tecnicismi da leguleio che sembrano frutto di un laboratorio di arzigogoli bizantini.
Passiamo ora al secondo punto: le decisioni perplesse.
Non c’è dunque da sorprendersi se queste procedure distorte generano sentenze confuse e male argomentate.
Le Corti d’Appello spesso vedono le loro decisioni impugnate in Cassazione, dando il via a un nuovo ciclo di inutili attese.
Così, ecco che da sette a otto anni possono passare per chiudere un processo civile e sei o sette per uno penale.

Davvero, è quasi divertente, se non fosse tragico.
Seneca lo aveva detto tanto tempo fa: “scrivere in fretta non comporta scrivere bene; scrivere bene implica scrivere in fretta”.
Ma noi, oh noi, sembriamo aver preso la strada del “fai male e porta pazienza”.
Superato questo labirinto di incomprensioni, torniamo a osservare la contraddizione evidente nella proposta di un comitato anti-referendum da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM).
Questa associazione, che si vanta di non avere inclinazioni politiche, decide di addentrarsi nel bel mezzo della mischia, contribuendo a creare confusione.
Michele Emiliano, ex magistrato e attuale presidente della Puglia, invita alla ragionevolezza, ma l’ANM sembra preferire una performance da campagna pubblicitaria politica piuttosto che una seria riflessione sul ruolo della giustizia.
E mentre l’ANM si allontana dalla sua natura tecnica per inseguire consensi, trascura di considerare che le sue azioni parlano più forte delle sue parole.
Questa iniziativa di fatto rinforza l’idea che l’organismo in questione sia più politico che tecnico. Dobbiamo davvero chiederci: chi rappresentano, infine?
E ora parliamo della riforma del ministro Carlo Nordio, perché qui si entra nel merito.
Contrariamente a quanto si seguita a dire in circoli chiusi, il cuore della riforma non è la separazione delle carriere, bensì la proposta di sorteggio per il Consiglio Superiore della Magistratura.
Ma perché mai considerare il sorteggio una soluzione?
Potremmo affermare che il destino dei membri del CSM debba essere determinato da un casuale colpo di fortuna o di sfortuna?
Sembra più una lotteria giuridica che una riforma seria.
D’altro canto, il sorteggio ha anche il suo fascino: potrebbe essere un tentativo di estirpare le radici del gioco politico che avvelena la magistratura, dove le correnti si allineano per eleggere non chi ha realmente meriti, ma chi meglio risponde ai loro disegni.
Qui scatta il gioco delle alleanze e delle vendette: chi ha i favori dell’uno o dell’altro decide l’andamento della giustizia.
Non possiamo deridere il metodo del sorteggio, il quale vanta una lunga e gloriosa storia.
Aristotele, nell’Atene del V secolo, lo considerava un sistema neutrale per evitare favoritismi.
Ma oggi, ci si chiede: è davvero sufficiente?
Per quanto possa sembrare intrigante, restiamo nel dubbio se sia il modo migliore.
Potrebbe garantire l’assenza di scelte fatte sulla base di connessioni correntizie, ma ci dà davvero la certezza di avere i migliori al posto giusto?
In sintesi, ciò che affrontiamo non è solo un problema di risorse, ma un complicato intreccio di cattiva condotta e decisioni discutibili, dove la giustizia si muove come una danza lenta e claudicante.
Se solo ci fermassimo a riflettere, potremmo comprendere che la vera riforma non passa né attraverso comitati anti-referendari né tantomeno attraverso ridicoli tentativi di rendere la giustizia un gioco a premi.
E mentre il dibattito sulla riforma si svolge, sarebbe opportuno che tutti, compresi coloro che siedono nei palazzi della giustizia, ricordassero che la vita non è un processo da cui estrarre statistiche, ma una serie di eventi complessi legati da un tessuto di relazioni umane.
Una realtà che non può ridursi a mere formule astratte, ma richiede una capacità di ascolto, comprensione e, soprattutto, decisioni che siano illuminate dalla giustizia e dall’umanità.
In fondo, la giustizia non dovrebbe essere un’entità distante e incomprensibile.
Dovrebbe essere un faro che illumina, ancorato nel rispetto dei diritti umani e nella promozione di una società equa.
Ma, purtroppo, quella luce sembra essere sempre più offuscata da nuvole di burocrazia e pratiche incomprensibili.
Siamo davvero disposti ad accettare che la nostra giustizia sia ridotta a una commedia tragica, fatta di ritardi e confusioni, mentre il mondo che ci circonda continua a girare?
Nessuno dovrebbe essere costretto a vivere un incubo burocratico, perché ciò che è in gioco è non solo il nostro sistema legale, ma la nostra dignità di cittadini.