

È il 1912 e un cielo pungente di inverno tedesco (Berlino) accompagna Alfred Lothar Wegener, geofisico, meteorologo, esploratore, avventuriero e spirito inquieto, mentre posa lo sguardo su una mappa del mondo e sente nascere, quasi fisicamente, l’idea che cambierà per sempre la storia della scienza, e non è una semplice intuizione, né un lampo poetico, ma una percezione vivida e ostinata, perché quei continenti, così immobili sulla carta, sembrano invece sussurrare una storia di movimento, di unione e di frattura, l’Africa e il Sud America che si incastrano con sorprendente precisione come frammenti di un vaso antico, l’India e l’Antartide che rivelano contorni compatibili, l’Australia e il Madagascar che tradiscono un passato comune, ed è in quell’istante, silenzioso e decisivo. Wegener comprende ciò che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di formulare con tanta radicalità, ossia che la Terra non è un mosaico statico, ma un organismo dinamico, vivo e mutevole. Peraltro, la comunità scientifica, tuttavia, reagisce con un arroccato scetticismo, bollandolo come un visionario, un intruso che osa mettere in discussione decenni di certezza geologica, nonostante egli porti con sé un bagaglio impressionante di prove, dalle corrispondenze dei fossili, come il Mesosauro, rettile d’acqua dolce impossibilitato a attraversare oceani, ma presente tanto in Brasile quanto in Sudafrica, alla diffusione stupefacente della Glossopteris, felce dai semi pesanti rinvenuta in regioni oggi lontanissime, fino alle catene montuose che, osservate con attenzione, si rivelano come linee spezzate della stessa colossale struttura, gli Appalachi che continuano nelle Highlands scozzesi, le formazioni africane che completano quelle sudamericane come pagine ricucite di un unico libro. Ciononostante, di fronte a tutto questo, i geologi dell’epoca restano ostinatamente fermi, perché ciò che Wegener non può offrire è il “motore”, cioè la spiegazione fisica capace di convincere gli scettici che davvero un continente possa muoversi, e così la sua teoria della “deriva dei continenti”, pubblicata nel 1915 con rigore e coraggio, viene ridicolizzata con sarcasmo e durezza, definita una favola, un sogno ad occhi aperti, un’invasione di campo da parte di un meteorologo considerato troppo audace, troppo irrequieto, troppo scomodo. Tuttaviua Wegener continua a credere, a cercare, e nel farlo alimenta un fuoco interiore che non si spegne nemmeno quando affronta le spedizioni più ostili, come quella in Groenlandia nel 1930, da cui non farà mai ritorno, stroncato dal gelo e dallo sforzo a soli cinquant’anni, convinto, forse, di aver fallito, ed ignaro del fatto che il mondo, cinquant’anni dopo la sua morte, avrebbe finalmente scoperto quanto fosse stato straordinariamente nel giusto. Infatti, negli anni ’50, il sonar rivela che il fondale oceanico non è un deserto immobile, ma un paesaggio maestoso e fratturato da dorsali immense che serpeggiano attraverso gli oceani come cicatrici incandescenti, e le analisi magnetiche mostrano strisce simmetriche di roccia giovane che testimoniano la creazione continua della crosta terrestre, lì dove il magma risale e spinge via le zolle come zattere continentali alla deriva, un processo chiaro, elegante, innegabile, la prova fisica che Wegener non aveva potuto offrire e che ora spalanca all’umanità una nuova comprensione del pianeta. Nasce così, negli anni ’60, la teoria della tettonica a placche, raffinata, complessa, robusta e la vecchia “deriva dei continenti” si trasforma nel fulcro assoluto della geologia moderna, spiegando terremoti, eruzioni vulcaniche, catene montuose, fosse oceaniche e perfino la danza millenaria delle masse continentali che continuano a muoversi sotto i nostri piedi. Oggi il nome di Wegener è pronunciato con rispetto, con gratitudine e con ammirazione, posto accanto a quelli di Darwin ed Einstein come esempio di visione rivoluzionaria che il suo tempo non aveva saputo comprendere, e, mentre, le animazioni moderne mostrano Pangea che si apre e si frantuma in un balletto lento e monumentale, si avverte un’eco malinconica, perché l’uomo che per primo osò immaginare tutto questo non poté assistere al trionfo delle sue idee, derise, quando erano troppo nuove per essere comprese e luminose proprio perché temerarie. Perciò, la sua vicenda, intensa e coraggiosa, ricorda quanto sia fragile la linea che separa l’intuizione dal ridicolo, e quanto spesso la verità debba attendere decenni prima che il mondo sia pronto ad ascoltarla, dimostrando che avere ragione non è mai abbastanza, che serve pazienza, forza e, soprattutto, il coraggio, meraviglioso e solitario, di dirla anche quando nessuno vuole sentirla.