Passando dal rosso al grigio del capitalismo

Ah, la Cina!
Terra di contrasti e paradossi, dove la bandiera rossa del comunismo sventola con una certa ironia nel vento della globalizzazione.
Chi avrebbe mai pensato che quella grande stella gialla, simbolo del Partito Comunista, sarebbe stata circondata da tante piccole stelle rappresentanti i contadini, i lavoratori, e… i capitalisti?
Un vero colpo di genio, se non fosse che per i Sovietici questa era pura eresia.
Ma in fondo, si sa, i cinesi hanno sempre avuto un modo tutto loro di interpretare il marxismo-leninismo.
In un bel giorno del ’49, il “grande timoniere” Mao Tse Tung decise di portare la Cina verso l’industrializzazione autarchica.
Un progetto tanto ambizioso quanto ridicolo, che portò a milioni di morti durante il “Grande Salto in Avanti”.

Non ci volle molto perché Mao, in un estremo atto di narcisismo, capisse che il suo piano non avrebbe retto; e così, la sua invenzione di un socialismo purissimo si trasformò in un genocidio.
Quello che segue è un capitolo noto della storia cinese: la “Rivoluzione Culturale”, un’altra tragicommedia in cui l’unico obiettivo sembrava essere quello di mantenere il potere a tutti i costi.
Ma dentro il Partito, le cose non erano così semplici.
Alcuni iniziarono a mettere in discussione la leadership di Mao, e non senza buone ragioni: chiunque avesse un minimo di buon senso sapeva che un regime così oppressivo non potesse durare a lungo senza generare reazioni violente.

Solo un ristrettissimo gruppo di fedelissimi, la “Banda dei Quattro”, rimase al suo fianco, come dei fanatici devoti a un culto.
Ma, sorpresa!

Dopo la morte di Mao (che alcuni sospettano sia stata un omicidio), questo gruppo fu spazzato via, e la Cina si ritrovò di fronte a un bivio.
Fu qui che entrarono in gioco Hua Kuo Feng e Deng Xiaoping, portando con sé una ventata di pragmatismo che fece quasi ribaltare il tavolo.
Le “quattro modernizzazioni” segnarono l’inizio dell’apertura che conosciamo oggi. Investimento straniero? Certo!
Che bella idea! E mentre si strinse la mano a Occidente, la Cina cominciò a mangiarsi un pezzetto alla volta dell’influenza sovietica, contribuendo così alla disfatta dell’URSS. Che storia affascinante!
Quando la cortina di ferro cadde, la Cina non si fece trovare impreparata.
Anzi, imparò dagli errori dei russi e si rese conto che una struttura statalista estrema non era sufficiente in un mondo dove la competizione chiede risultati.
Adieu, dogmi marxisti!
Benvenute, aziende private gestite da ex burocrati del partito che ora indossano il cappello di imprenditore.
Che evoluzione, eh?
Ma attenzione!
Qui subentra un problema degno di nota: i nuovi “capitani d’industria” non erano più proletari, quindi come risolvere il dilemma?
La soluzione giunse nel 2011, quando il partito decise che anche i membri della borghesia potessero entrare nella sua schiera.
Una mossa che non solo profumava di tradimento nei confronti dei principi marxisti, ma che liberò la Cina dalla miseria estrema, permettendo la nascita di una robusta classe media. Insomma, redenzione!
Ma ahimè, i problemi non finiscono mai. I cinesi si trovano ora a fronteggiare quello che chiamano il “shehui guhua”: stagnazione sociale, dove la forbice tra ricchi e poveri si allarga a vista d’occhio.
Si contano miliardari eppure il reddito pro capite resta inferiore ai paesi del primo mondo.
E sai qual è il colmo?
Il salario minimo, fissato a circa 350 dollari, è quasi ridicolo rispetto a certi standard occidentali.
Ecco, il punto culminante: la Cina rimane una potenza militare e un colosso manifatturiero, ma non ha saputo costruire un sistema capitalistico solido.
La risposta alla crisi?
Semplice!
Nella fumosità del 2024, il Partito proclamò che la “lotta di classe” era una degenerazione.
Così, abbandonando il marxismo senza troppi riguardi, si avventurò per strade che odoravano di fascismo.
Bravo, Partito Comunista Cinese! Un esperimento politico da manuale.
Infine, è davvero comico osservare certi comunisti peruviani, persi nelle loro nostalgie, che osannano la Cina come modello di “successo del comunismo”.
Ma è proprio questo il bello: i successi economici cinesi sono frutto di un’eterodossia sistematica e della rinuncia al marxismo.
La famosa frase di Deng, “Non importa il colore del gatto, purché catturi topi”, risuona come un eco beffardo nei corridoi del potere.
In conclusione, avviso tutti quei piccoli comunisti che si credono astuti: la Cina, in fondo, è solo comunista di nome.
E mentre il regime continua a barcamenarsi tra ideologia e pragmatismo, il mondo osserva con incredulità e un pizzico di cinismo.