Quando Francesca Albanese, relatrice della Palestina all’Onu, ha commentato l’assalto alla redazione de «La Stampa», è emersa una frase che, a mio avviso, merita non solo attenzione, ma anche un bel po’ di sarcasmo: «Che sia di monito perché torni a fare il proprio lavoro».

Brava Albanese, davvero!

Perché chi altro se non te ha il potere di impartire lezioni al mondo su cosa significhi davvero “fare il proprio lavoro”?

Da dove prenderà mai l’autorità per lamentarsi di un libero dibattito quando, evidentemente, la sua idea di confronto sembra limitarsi all’applauso alle sue tesi?

Albanese è uno di quei personaggi che, con il fervore di un novello predicatore, cerca di “raddrizzare il legno storto dell’umanità” e, ovviamente, il legno più storto di tutti è quello israeliano.

Ma sappiamo bene come vanno queste storie; la sua narrativa non fa eccezioni, né si discosta dall’ormai collaudato copione di chi ha trovato la propria missione nel tentativo di redimere il mondo dalla sofferenza… a modo loro.

Ricordiamo le parole di Karl Popper, il filosofo della scienza: «Fra tutti gli ideali politici, quello di rendere la gente felice è forse il più pericoloso».

Penso che potremmo modificare leggermente la citazione per riferirci a Francesca.

Può darsi che il suo idealismo, fondato sulla causa palestinese, crei una sorta di delirio carismatico ai suoi adepti (giovani, avidi di verità e giustizia sociale), ma di certo non offre spazio per il “diverso” – ossia, l’opinione opposta.

Ecco perché, mentre condanna le violenze dei teppisti pro-Pal alla redazione della «Stampa», la Albanese non può fare a meno di sentirsi in sintonia con loro.

Un gesto lanciato nella direzione giusta, secondo il suo punto di vista, ovviamente.

Per lei, il messaggio è chiaro: se non sei dalla nostra parte, beh, ci sono sempre modalità alternative per educarti. Colpirne uno per educarne cento, giusto?

Ah, la maestrina dalla penna rossa!

Un’immagine evocativa per chi desidera vedere come il “verbo” anti-sionista venga insegnato nei salotti intellettuali e nei circoli giovanili.

Non c’è spazio per errori, ma solo per punizioni pedagogiche, come dimostrato dal trattamento riservato al sindaco di Reggio Emilia.

Sì, la lezione è chiara: anche in buona fede, non c’è spazio per l’amnistia per coloro che osano incorrere in ciò che la Albanese considera un errore.

La pubblica umiliazione è solo un modo per assicurarsi che nessuno osi calpestare il sentiero luminoso del dogma pro-palestinese.

Questa giostra di ideali porta inevitabilmente a una conclusione amara: Francesca Albanese non è solo una fondamentalista; è una custode del pensiero unico, un muro di Berlino di opinioni che non tollera divergenze.

Il suo radicalismo pro-Palestina si espande a macchia d’olio, quasi semplificando la complessità delle questioni mediorientali mentre marcia spedita verso l’uniformità del consenso.

Per lei non esistono sfumature e, anzi, ogni chiacchiera critica nei confronti della sua sacra causa viene trattata come un affronto imperdonabile.

Andrea Malaguti, direttore de «La Stampa», ha espresso solidarietà, rimarcando gli slogan intimidatori ascoltati durante l’irruzione: «Giornalista, sei il primo della lista» e affermazioni più pesanti come «Giornalista, ti uccido».

Che bello!

Chissà se i giovani “compagni” sanno che evocano fantasmi delle Brigate Rosse.

Ma chi crede davvero che questi fascinosi incitamenti siano effimeri, che non abbiano alcun peso?

Ogni tentativo di banalizzazione della situazione da parte delle autorità è semplicemente ridicolo e mostra una mancanza spaventosa di comprensione sul potenziale pericoloso delle idee.

Ma il granello di sabbia in questo ingranaggio politicamente corretto è rappresentato da quel brutto sogno chiamato terrorismo, spesso alimentato sotto la bandiera della causa palestinese.

Ricapitoliamo: l’appello alla causa palestinese si mescola con frustrazioni politiche locali, creando una reazione esplosiva.

Certo, oggi in Italia non ci sono le condizioni per un ritorno al “partito armato”, così come negli anni di piombo.

Eppure, ci sono sempre stati quelli che hanno scelto di imbracciare fucili, convinti che la loro causa fosse più grande della vita stessa.

D’altronde, la storia ha dimostrato che le idee hanno un potenziale distruttivo quando vengono messe nelle mani sbagliate.

Il grido di battaglia di oggi potrebbe essere benissimo il terreno fertile per qualcosa di più insidioso domani.

Quando la campana suona, come accaduto recentemente a Torino, è importante ricordare che il suono non è solo una nota stonata per pochi, ma un richiamo all’equilibrio che coinvolge ognuno di noi.

In definitiva, ciò che ci serve è un dialogo che abbracci la complessità.

Un confronto che non scavalchi le opinioni opposte, ma che, al contrario, le accolga.

In questo modo, possiamo costruire un’idea di democrazia che riconosca la diversità di vedute e la ricchezza delle esperienze umane.

Le parole di Francesca Albanese, purtroppo, sembrano puntare in direzione diametralmente opposta; e questo è il vero problema.

Mentre continuiamo a osservare questa danza di ideologie, sarebbe utile ricordare che non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi.

La lotta per la giustizia è nobile, ma deve trovare la sua espressione nella capacità di dialogare e rispettare la pluralità.

Insomma, il mondo ha bisogno di giornalisti, e non di predicatori, se vuole davvero raggiungere una qualsiasi forma di pace condivisa.

Di Admin

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