A Mia Nonna e a mio Padre che hanno saputo trasmettermi l’amore per le favole
Hai bambini che ho incontrato nella mia casa, Giuseppina, Tonia, Giovanna e Raffaele
A tutte le mamme che leggono le favole.

“Il Lupo e l’Aquila”, favola scritta da Amelia Izzo Amoroso d’Aragona e dedicata ai Cuccioli del Matese e alle generazioni che hanno imparato ad amare le storie grazie ai nonni, ai genitori e alle maestre, è un racconto ricchissimo di immagini, simboli e dialoghi che intrecciano la dimensione reale con quella meravigliosa. Ambientata in un paesino del Parco del Matese, tra montagne solenni, cardi azzurri e vecchi palazzi che custodiscono bambini e memorie, la favola si presenta come un viaggio emotivo che parte da un giardino e sfocia in un mondo dove natura e immaginazione diventano maestri di vita. L’autrice costruisce una cornice narrativa intensa, dichiaratamente autobiografica con il giardino come rifugio, come luogo dove elaborare i lutti e respingere le cattiverie, come spazio in cui tornare bambini e ridare voce alla fantasia. È in questo microcosmo che si muovono il rospo in attesa di diventare principe, la lumaca romantica, il gatto pettegolo e il coniglio che osserva con saggezza il caos degli esseri umani. Attraverso questi personaggi, il racconto si apre a temi sorprendenti: l’educazione, la comunità, la solitudine dei ragazzi lasciati per strada, la responsabilità degli adulti, il bisogno di ascolto e di regole condivise. La favola non si limita a intrattenere: interroga, provoca, invita a guardare il mondo con uno sguardo più attento e meno distratto. Il momento centrale arriva con l’ingresso della farfalla, narratrice leggera e autorevole, che introduce la storia dell’aquila reale del Matese e dei suoi due aquilotti. È qui che la favola diventa epica, capace di affrontare temi universali come la maternità, il sacrificio, la paura della scarsità e il rapporto tra istinto e amore. L’aquilotto caduto dal nido, destinato a morire secondo la logica brutale della natura, finisce invece nella tana di un lupo. Da ciò che dovrebbe essere una minaccia nasce l’imprevisto più grande: l’amicizia. L’aquilotto, buffo e indifeso, viene accolto dai lupacchiotti come un fratello di giochi; mamma lupo oscilla fra l’istinto predatorio e una compassione inattesa e l’aquila madre sorvola disperata le montagne nel tentativo di ritrovarlo. La convivenza nella tana si trasforma così in una delicata allegoria sulla possibilità di superare i ruoli imposti, sulla capacità di riconoscere nell’altro non un nemico, ma una parte fragile di noi stessi. L’innesco morale della favola, tuttavia, non è mai retorico con la scelta di mamma lupo di congedare l’aquilotto e restituirlo al cielo dona al racconto un finale intenso, carico di nostalgia e maturazione. L’aquilotto ormai cresciuto vola via, ma l’amicizia resta, raccontata dai pastori come una leggenda vera, tramandata dal vento che attraversa le gole e ripetuta dagli animali del giardino di coccio che ascoltano incantati. La favola, pur nella sua lunghezza e ricchezza di episodi, mantiene una coerenza poetica che la rende preziosa ed insegna che non bisogna giudicare senza conoscere, che l’amicizia può nascere anche tra creature lontane, che gentilezza, lealtà ed empatia sono i valori fondamentali di qualsiasi comunità umana. “Il Lupo e l’Aquila” è dunque molto più di un racconto per bambini: è un invito a ricordare che il mondo, quando lo guardiamo con occhi puri, può ancora sorprenderci e unirci.