Landini invoca “diritti” e “lavoro”, ma dietro c’è un piano per incassare.

La CGIL, secondo Il Giornale, punta a 2,5 milioni di euro dal referendum, attingendo alle tasche degli italiani.

La sinistra sindacalizzata usa la partecipazione popolare per ottenere rimborsi pubblici, celandosi dietro la pretesa di cancellare leggi scritte dal PD, loro ex alleato.

Nessun partito si espone, ma tutti, da M5S ad AVS, sperano che la CGIL incassi.

Landini fa comizi non per i lavoratori, ma per gonfiare il bottino con i rimborsi elettorali, mentre predica accoglienza e “diritti universali”. Impediamo questo ennesimo affare politico-sindacale bloccando il referendum.

Il referendum, quindi, non è una battaglia per i lavoratori, ma una lucrosa operazione finanziaria.

Il “diritto” al lavoro sbandierato da Landini si traduce, concretamente, nel diritto della CGIL ad attingere a fondi pubblici.

.E non è una novità, intendiamoci.

È un vecchio vizio italico, declinato in salsa sindacale.

Si parla tanto di meritocrazia, di concorrenza, di efficienza, ma poi, quando si tratta di spartire la torta, ecco che rispuntano le logiche clientelari e i carrozzoni assistenziali, ben oliati dai meccanismi di finanziamento che premiano l’appartenenza piuttosto che la competenza.

Il “diritto” al lavoro, così inteso, diventa una comoda bandiera per giustificare l’ennesima pioggia di contributi a pioggia, diretti a sostenere strutture elefantiache, spesso più interessate a perpetuare se stesse che a difendere i reali interessi dei lavoratori.

E intanto, chi davvero cerca un’opportunità, chi si rimbocca le maniche e si mette in gioco sul mercato del lavoro, si ritrova a fare i conti con una giungla di precariato, di contratti a termine e di stipendi da fame.

Ma tant’è, l’importante è che la CGIL abbia il suo “diritto” ad attingere a piene mani alle casse dello Stato.

Il resto, sono solo chiacchiere e distintivo.

La narrazione progressista, l’appello alla giustizia sociale, sono solo una cortina fumogena per mascherare un disegno ben preciso: riempire le casse del sindacato.

E mentre il popolo viene chiamato a esprimersi, illuso di partecipare a un cambiamento reale, la CGIL freme per incassare la sua fetta di torta.

Dietro le quinte, i soliti notabili aguzzano l’ingegno, pronti a scommettere sul cavallo vincente, qualunque esso sia.

Che importa se la “base” si svena per quattro spiccioli, se le promesse di un futuro radioso si scontrano con la dura realtà di bilanci sempre più in rosso?

L’importante è mantenere saldi i privilegi, le poltrone ben imbottite, le convenzioni blindate.

E la CGIL, con quel suo fare paternalistico e la retorica stantia, non è forse maestra in quest’arte? Un occhio al “bene comune”, certo, ma l’altro ben puntato alla salvaguardia del proprio orticello.

Perché, diciamocelo francamente, la rivoluzione si fa a parole, ma il potere si esercita nei corridoi, tra una pacca sulla spalla e un accordo sottobanco.

E la torta, si sa, va divisa.

Che ne tocchi una fetta a tutti è un’utopia; che ne tocchi una fetta, la più grossa possibile, alla CGIL, è una certezza.

Una certezza che si ripete, stancante e immutabile, ad ogni tornata elettorale, ad ogni “cambiamento epocale”.

Un gioco sporco, dove l’idealismo si mescola all’opportunismo, e i “diritti” diventano l’ennesima scusa per spartirsi il potere e il denaro. Impediamo che il voto popolare sia strumentalizzato per arricchire chi, in teoria, dovrebbe difenderlo.

Diciamo no a questo ennesimo inganno, e smascheriamo il vero volto di un sindacato che, dietro la facciata di paladino dei lavoratori, nasconde un avido interesse economico.

Di Admin

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