La definizione di guerra è da sempre oggetto di dibattito tra studiosi, analisti e storici.

La questione si complica ulteriormente quando ci si misura con conflitti devastanti che non si presentano sotto le sembianze tradizionali.

Servono ancora dichiarazioni formali?

Due eserciti contrapposti, l’uno di fronte all’altro?

O è necessario raggiungere un certo numero di morti per far scattare la definizione di guerra?

Questi interrogativi riemergono prepotentemente alla luce degli avvenimenti drammatici che stanno segnando la Nigeria negli ultimi anni.

L’ombra della guerra in Nigeria

La Nigeria, gigante africano da 200 milioni di abitanti, è in guerra da tempo.

Sebbene il terrorismo islamista di Boko Haram abbia attirato l’attenzione globale e la maggior parte delle risorse mediatiche, è la fascia centrale del Paese, la cosiddetta “Cintura di mezzo”, a vivere la violenza più intensa e inafferrabile.

Qui, la lotta per le risorse si intreccia con le differenze etniche e religiose in un contesto di crescente competizione tra i mandriani islamici Fulani, in fuga da un nord sempre più arido, e gli agricoltori cristiani locali, già vulnerabili e orfani di protezione governativa.

Negli ultimi anni, gli scontri hanno assunto caratteri spaventosi, trasformandosi in attacchi mirati e sistematici.

I fatti accaduti durante le festività natalizie raccontano una storia di brutalità che richiede una riflessione profonda sulla natura e la definizione della guerra stessa.

Gli attacchi di Natale nello Stato di Plateau

A Natale, più di un migliaio di Fulani ha attaccato circa 25 comunità cristiane nello Stato di Plateau. In quattro giorni di violenza, oltre 170 persone hanno perso la vita.

Questa escalation di violenza ha portato il governo locale a imporre un coprifuoco, ma le misure sembrano inadeguate di fronte a un conflitto che si evolve rapidamente e che sembra sfuggire al controllo.

Le immagini di sfollati in cerca di rifugio nelle chiese, supportate da organizzazioni religiose che forniscono assistenza primaria, evidenziano non solo l’assenza di sostegno governativo, ma anche l’impossibilità di un intervento efficace.

La Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre ha segnalato come la chiesa stessa stia diventando un rifugio per le vittime della violenza, mentre il governo continua a latitare.

Un sopravvissuto, Jalang Mandong, racconta la tragedia di aver perso dieci parenti nel massacro che ha colpito la sua comunità. “Gli attacchi avevano lo scopo di prendere di mira i cristiani e disturbare la celebrazione del Natale,” dichiara, rivelando una strategia ben orchestrata da parte dei gruppi coinvolti. Sono chiari i segnali di una guerra che ha radici profonde: una guerra per la terra, per le risorse, per l’identità.

L’interpretazione della guerra

Ma quando possiamo definire questi eventi come guerra?

La situazione in Nigeria mette in luce come le guerre contemporanee non sempre seguano le regole stabilite da convenzioni internazionali o dai tradizionali accettabili standard di conflitto.

Non c’è una dichiarazione formale da parte di un governo, né eserciti regolari ufficialmente contrapposti. Tuttavia, il livello di violenza, l’intenzione strategica e gli effetti devastanti sui civili parlano chiaro.

Il filosofo Carl von Clausewitz scrisse che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi.”

In Nigeria, la guerra non è solo un confronto armato; è un susseguirsi di atti violenti che si intrecciano con la questione della giustizia sociale, della lotta per la terra e dell’identità culturale.

Il conflitto non è solo quello tra due eserciti, ma anche, e soprattutto, tra gruppi etnici e religiosi, aggravato da una politica che tende a silenziare piuttosto che a risolvere le questioni fondamentali.

La dimensione umana della guerra

Dietro i numeri e le statistiche, ci sono volti, storie di famiglie distrutte, individui che perdono tutto.

La testimonianza di Jalang Mandong è solo una delle tante che costituiscono un mosaico di sofferenza.

Gli sfollati, costretti a lasciare le loro terre, diventano parte di un lungo elenco di vittime che include uomini, donne e bambini, strappati all’unico luogo che conoscevano per cercare riparo.

L’immagine del Natale, festa di pace e speranza, si trasforma in un ricordo amaro per coloro che hanno subito l’orrore degli attacchi.

La Chiesa, in quanto luogo di rifugio, si fa portatrice di un messaggio di dialogo, ma la domanda rimane: può il dialogo risolvere conflitti radicati nell’odio e nella disperazione?

Un genocidio silenzioso?

La situazione in Nigeria è tale da far gridare al genocidio.

Le parole del governatore della regione non sono semplicemente allarmistiche; sono una diagnosi della realtà.

In una nazione dove la vita umana sembra avere un valore sempre più diminuito, occorre chiedersi a cosa servono le definizioni formali di guerra.

Qual è il valore di una dichiarazione di guerra quando la vita quotidiana di milioni di persone è già segnata dalla violenza?

La guerra in Nigeria non ha bisogno di una proclamazione ufficiale per essere riconosciuta come tale.

I massacri, la paura di un domani sempre più incerto, la perdita delle proprie terre, dei propri cari e della propria cultura: questi sono i veri indicatori di un conflitto che ha già superato ogni limite.

In conclusione, la definizione di guerra deve evolversi per riflettere le complessità del mondo contemporaneo.

La Nigeria ci insegna che non serve una dichiarazione formale, né una contrapposizione tra due eserciti regolari per considerare un conflitto come una guerra.

La violenza sistematica, gli attacchi mirati e la sofferenza dei civili devono essere al centro della nostra comprensione.

È ora che la comunità internazionale presti attenzione a questo genocidio silenzioso.

Le parole non bastano più; servono azioni concrete e un impegno collettivo per fermare la spirale di violenza che ha ridotto intere comunità in macerie.

Finché continueremo a ignorare questa realtà, rimarremo muti spettatori di una guerra che, purtroppo, ha già mietuto troppe vittime.

Di Admin

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