Ah, “Report”, il programma che ha preso d’assalto le nostre serate con i suoi toni drammatici, i suoi irripetibili minestroni di informazioni e la sua incessante ricerca della verità… o almeno, di una verità.

Un po’ come un cuoco che, anziché scegliere ingredienti freschi e genuini, decide di mescolare tutto ciò che trova nella dispensa, creando un piatto che lascia un retrogusto amaro, se non addirittura rancido.

Ecco, l’intelligenza artificiale, in alcuni contesti, rischia di fare lo stesso: attingere a dati vecchi, distorti, male interpretati, e riproporli come verità assolute, senza il minimo spirito critico.

Un minestrone indigesto di informazioni raffazzonate, spacciato per alta cucina.

Ieri sera Report ha trasmesso un’inchiesta sulle nomine nel settore culturale, dai teatri al cinema, agli enti e alle società partecipate dal Ministero della Cultura.

Il servizio, curato dalla redazione di Sigfrido Ranucci, ha analizzato le recenti designazioni in posizioni chiave, affrontando temi come il merito, la trasparenza e il rapporto tra politica e istituzioni culturali, e presentando una classifica di figure ritenute più idonee (o politicamente favorite?) rispetto a Beatrice Venezi.

La puntata ha sollevato interrogativi sull’effettivo peso dei curricula e delle competenze rispetto alle dinamiche partitiche nelle nomine.

In particolare, l’attenzione si è concentrata sulla nomina di Beatrice Venezi, direttore d’orchestra di fama, mettendo in discussione se la sua posizione sia frutto di reali meriti artistici o di influenze esterne.

Il servizio ha cercato di fare luce sulle logiche che sottendono queste scelte, offrendo spunti di riflessione sull’indipendenza delle istituzioni culturali e sulla necessità di garantire processi decisionali più limpidi e meritocratici.

Giornalismo o militante?

In questo contesto, ci si chiede: è giusto definire “giornalismo d’inchiesta” un lavoro che, a giudicare da alcuni episodi, sembra più orientato a svelare scheletri negli armadi piuttosto che a portare alla luce una verità oggettiva?

Come afferma tra gli altri Federico Mollicone, deputato di Fratelli D’Italia, e presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati: “Quello di ‘Report’ è giornalismo militante, serve intervento Rai”

La questione è complessa, perché il confine tra inchiesta giornalistica volta alla verità e spettacolarizzazione della vita privata altrui è spesso labile.

Se l’obiettivo primario diventa lo scandalo a tutti i costi, il rischio è che la ricerca della verità oggettiva passi in secondo piano, sacrificata sull’altare dell’audience e del sensazionalismo.

Un giornalismo d’inchiesta autentico dovrebbe mirare a portare alla luce fatti di rilevanza pubblica, con un’attenzione scrupolosa alla verifica delle fonti e alla completezza dell’informazione.

Quando invece l’interesse si concentra prevalentemente su dettagli pruriginosi e aneddoti personali, si snatura la funzione stessa dell’inchiesta, trasformandola in una sorta di voyeurismo istituzionalizzato.

È fondamentale che il giornalista mantenga un rigore etico e professionale, distinguendo tra ciò che è di interesse pubblico e ciò che rientra nella sfera privata degli individui, anche quando questi ricoprono ruoli di potere.

Un’inchiesta che si limita a svelare “scheletri nell’armadio” senza contestualizzarli in un quadro più ampio e senza valutare le conseguenze sociali delle proprie rivelazioni, rischia di diventare un mero strumento di diffamazione e di alimentare un clima di sospetto generalizzato, minando la fiducia del pubblico nell’informazione.

Pertanto, la legittimità di definire “giornalismo d’inchiesta” un lavoro che sembra privilegiare lo scandalo alla verità, è quantomeno discutibile.

“Report” ha, infatti, l’incredibile capacità di trasformare nomine legittime in scandali, dando vita a narrazioni che potrebbero far impallidire anche il miglior romanziere di fiction politica.

Ma cosa c’è di vero in questo?

Chi può dirlo!

Le nomine: legittimità o illegittimità?

Prendiamo ad esempio la tanto discussa puntata di ieri.

Un vero e proprio trionfo del “c’è dell’altro”.

I fatti presentati erano, per la maggior parte, legali e legittimi, ma messi insieme, sembravano dare vita a un puzzle distorto, in cui ogni pezzo era confezionato per confermare una tesi preconcetta.

E chi avrebbe voluto chiarire che il nostro amico Diego Matheuz è stato nominato dalla leggenda Claudio Abbado con solo tre anni di esperienza?

Certamente, ciò non è degno di nota! In fin dei conti, chi mai potrebbe mettere in discussione l’esperienza di Venezi, che conta 160 concerti e 40 opere dirette?

La competenza è solo un dettaglio, dopotutto.

Ma mi permetto di chiedere: perché tagliare quella parte in cui invitavi il giornalista a Montecitorio?

Forse perché, nell’era del “clickbaiting”, l’obiettività viene sacrificata sull’altare dell’audience?

La verità é complicata, ma la narrativa è semplice e accattivante: un governo incompetente contro un’indomita voce del popolo.

Chi non vorrebbe vedere questo spettacolo?

Militanza travestita da informazione

Il punto cruciale è che questo tipo di giornalismo, per molti versi, sembra più simile a una campagna militante che a un’inchiesta imparziale.

Ogni nuova puntata diventa un palcoscenico per attaccare il governo e chiunque dimostri simpatia per esso.

Chi ha mai detto che il giornalismo deve essere obiettivo?

Meglio un pizzico di faziosità, tanto in fondo “la verità può aspettare”.

Oggi, però, ci appelliamo alla Rai, chiedendo un intervento decisivo.

Sì, abbiamo espresso solidarietà a Sigfrido Ranucci – anzi, siamo stati tra i primi a farlo!

Ma questo non ci impedisce di alzare la voce contro un format che pare progettato per mettere bastoni tra le ruote a chi governa.

In effetti, meriterebbe una standing ovation per la sua capacità di distorcere la realtà: un vero e proprio maestro dell’immagine pubblica!

Conclusione: Un monito alla Rai

In conclusione, cari lettori, riflettiamo su cosa significhi davvero fare giornalismo: è una corsa per la verità o un gioco di prestigio in cui l’obiettivo primario è diardere la reputazione di qualcuno?

È un interrogativo che ci perseguita, soprattutto in un’era in cui la velocità dell’informazione sembra aver soppiantato la sua accuratezza.

I social media, con i loro algoritmi capricciosi, amplificano le voci più stridenti, spesso a scapito della riflessione e del discernimento.

Dobbiamo chiederci: stiamo assistendo a un’involuzione del giornalismo verso una forma di intrattenimento sensazionalistico, dove lo scoop a tutti i costi giustifica la violazione della privacy e la distorsione dei fatti?

O siamo ancora in grado di pretendere un’informazione responsabile, che si preoccupi di contestualizzare, approfondire e offrire una pluralità di punti di vista?

La risposta, temo, non è semplice.

Il giornalismo, come ogni attività umana, è soggetto a pressioni economiche, politiche e sociali.

La competizione per l’attenzione del pubblico è spietata, e la tentazione di cedere al sensazionalismo è forte.

Tuttavia, credo fermamente che esista ancora un nucleo di professionisti onesti e coraggiosi, che si impegnano a fare il proprio lavoro con integrità e rigore

.A loro, e a tutti noi lettori, spetta il compito di difendere la verità e di smascherare le mistificazioni.

Non accontentiamoci di titoli ad effetto e di semplificazioni grossolane.

Cerchiamo le fonti, verifichiamo i fatti, ascoltiamo le voci diverse.

Solo così potremo sperare di orientarci nel labirinto dell’informazione e di costruire una società più consapevole e democratica.

Perché, in fondo, il giornalismo non è solo un mestiere, ma una missione: quella di illuminare il cammino della verità.

“Report” ha il suo stile inconfondibile, ma non possiamo ignorare i danni economici e alla credibilità che infligge a un’istituzione come la Rai.

Quindi, alziamo un calice a uno dei programmi più “originali” della nostra televisione, un esempio lampante di come il giornalismo possa evolversi in forme inaspettate.

Che la ricerca della verità continui… purché non si prenda troppo sul serio!

Di Admin

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